Tutto ha inizio a Parigi un giorno di quattro anni fa, una ragazza accompagna un suo amico al centro ospedaliero Pitié-Salpêtrière e comincia a guardarsi intorno. Resta poco dell’originaria fabbrica di polvere da sparo cui era destinato l’edificio della Salpêtrière, costruito alla metà del 1600. Negli anni, le trasformazioni variamente detentive di quel luogo si sono però depositate nell’immaginario francese. La visione è potente ancora oggi per chi come Victoria Mas non ne aveva mai approfondito la storia.
Ed è proprio quel giorno che, nemmeno trentenne, comincia a interrogarsi fino ad avere l’idea del suo primo romanzo, Il ballo delle pazze (e/o, pp. 192, euro 16,50, traduzione di Alberto Bracci Testasecca) che presto diventerà un film per la regia di Mélanie Laurent. «Sono rimasta colpita dai vecchi edifici della Salpêtrière, quelli risalenti al XVII secolo – racconta la scrittrice che dopo i suoi studi alla Sorbona ha lavorato nel cinema -. L’architettura, la cappella di Saint-Louis, lo spazio circostante con il parco, i vicoli, sembrava un piccolo quartiere di Parigi. Affascinante e sinistro, ho scoperto che era stato prima un carcere femminile, in seguito un ospedale dove venivano internate le cosiddette isteriche, ma non solo». È a questo punto che, studiando ciò che il dottor Charcot sperimentava alla fine dell’Ottocento, Mas individua la chiave di volta dell’intero libro: «in quel tempo si svolgeva un ballo molto famoso nell’ospedale, noto come Bal des Folles. Durante questo evento, arrivavano da tutta la città per incontrare le internate che, per l’occasione, indossavano maschere e vestiti pittoreschi».
Il romanzo costeggia la considerazione che Michel Foucault fornisce della isteria là dove sostiene si sia trattato di un «processo» attraverso il quale si tentava di sfuggire al potere psichiatrico, ecco perché bisognerebbe discutere «di un fenomeno di lotta e non di un fenomeno patologico». È stato però il femminismo a essere più esplicito proprio riguardo la figura della isterica, basterebbe leggere Luce Irigaray, insieme alle voci riemerse grazie al movimento delle donne. In effetti abbiamo scoperto che erano esperienze tutt’altro che mutaciche, anche Victoria Mas ne intravvede, sia pure inconsapevolmente, una leva simbolica per il presente.
Come ha condotto le sue ricerche?
Da quella prima visita è passato un anno durante il quale è maturato il
desiderio di scrivere un romanzo. Ho iniziato a fare ricerche. Ho potuto
raccogliere ritagli di giornale del periodo. Ho letto opere dello
storico Yannick Ripa, particolarmente interessato alla storia della
«follia femminile» tra il XVIII e il XIX secolo a Parigi. Ho potuto
riflettere sulla vita di Augustine e di Blanche Wittman, due famose
pazienti del dottor Charcot. Infine, ho trascorso molto tempo a
setacciare l’iconografia della Salpêtrière, mi ha permesso di immaginare
queste donne incarnate e su carta. Una volta individuato il set, ho
lavorato sui personaggi e sull’ossatura della storia, dall’inizio alla
fine.
Diagnosi, congetture, metodi sperimentati in nome della
scienza eppure le questioni al fondo di quei numerosi ricoveri cui
seguivano appropriazioni e coercizioni erano altre, non solo in Francia.
Si trattava di ragioni sociali, sessuali, politiche. Per scrivere il
romanzo, in che modo è entrata in contatto con tanto dolore?
Prima di tutto, era essenziale per me capire sia il contesto morale del
tempo, la struttura sociale, sia la causa di questi internamenti abusivi
contro le donne. Non volevo inventare o estrapolare, ma provare a
dipingere, nel modo più accurato possibile, questa società squilibrata
di fine Ottocento.
Con il progredire dell’indagine, è emerso un processo di identificazione
molto forte. Consideravo queste donne come le mie antenate. Erano
passate per questa città prima di me e alle quali ero imparentata. In
tal senso, penso che le storie che ci hanno preceduto, e in particolare
le storie delle donne, ci riguardino profondamente: ci raccontano molto
del tessuto sociale, dei costumi e dei comportamenti che ci hanno
preceduto e consentono di capire dove siamo. In altre parole, stiamo
ricevendo l’eredità di quelle epoche passate e continuiamo a tessere la
nostra società con queste influenze.
Le sue protagoniste sono Louise, Eugénie, Geneviève, Thérèse.
Fanno esperienza dell’alienazione, arrivano alla Salpêtrière già
espulse, umiliate, diseredate, eppure creano una comunità di alleanze
tra donne in cui esiste ancora un senso dell’umano. Cosa ha voluto
rappresentare?
Ciò che non volevo riprodurre era uno scenario vittimizzato. Certo, per
definizione, sono vittime di un sistema che le discrimina e le
svantaggia. Eppure mi sembrava essenziale evitare di figurarle come
tali. Volevo consegnare loro una volontà, un’aspirazione, un obiettivo,
uno sguardo. Lasciare che il romanzo non fosse solo una serie di
sequenze dolorose e patetiche, ma dare a questa vicenda forza, energia,
movimento. Renderla dinamica. A quel tempo, l’identità di queste donne
era riassunta in termini dispregiativi. Volevo dare loro, a modo mio,
l’umanità che gli era stata tolta. E tenere con me una domanda: come,
nell’arte, vogliamo rappresentare le donne oggi?
Il ballo del titolo diventa il punto d’incontro tra la
morbosità del mondo esterno e il luogo della coercizione. Da un lato la
cosiddetta levigata normalità e dall’altro l’eccentricità
dell’afflizione spesso in forma caricaturale. C’è però dell’altro,
compresa una metafora straniante.
Mi ha stupita, come poco plausibile e incomprensibile, che una simile
pratica avesse avuto luogo qui, nel cuore di Parigi, in un’epoca, in
fondo, non molto lontana dalla nostra. Sono rimasta anche sorpresa di
non aver mai sentito parlare di questo aspetto della storia parigina che
in effetti è un evento relativamente sconosciuto. Non c’è niente di
anedottico nella scelta del ballo, oltre all’interesse per un evento
poco discusso non si è trattato per me di un semplice dettaglio interno
alla vicenda della Salpêtrière. È piuttosto l’incarnazione di tutti i
difetti e i guasti dell’epoca: una società voyeuristica che esibisce chi
sta male in un ospedale come fosse l’esposizione di popolazioni
indigene dentro zoo umani; una società patriarcale che controlla le
donne rinchiudendole, all’interno della casa o all’interno della
Salpêtrière; un sistema paradossale, capace di produrre le grandi opere
della letteratura francese, e tuttavia incapace di trattare con dignità
chi soffre.
Molte scritture si sono occupate di questi temi, non solo in
un percorso di storia sociale della psichiatria, anche da un punto di
vista letterario e poetico. Come è composta la sua biblioteca?
La mia biblioteca ha più o meno gli stessi autori, cioè quelli che sono
stati essenziali per il mio gusto per la lettura e per imparare a
scrivere. Preferisco leggere pochi autori, ma bene. Così si trovano
François Mauriac, Charles Bukowski, Alberto Moravia, Françoise Sagan,
Guy de Maupassant ed Emile Zola per citarne alcuni. Traggo anche
notevole ispirazione dalla poesia di Charles de Baudelaire e Victor
Hugo. Apprezzo molto Claire Bretécher, Marjane Satrapi e Reiser. Infine
l’immenso e ricco lavoro di Carl Gustav Jung che influenza profondamente
la mia scrittura.
Lei crede che la parola letteraria possa rendere giustizia alla violenza della Storia?
Certamente può contribuire alla memoria e al ricordo di quella
ingiustizia. La letteratura richiede empatia e rende chi legge non un
testimone bensì un partecipante attivo nella storia. Ciò comporta in
particolare il processo di identificazione con i personaggi. Mi sono
assicurata di avvicinare lettori e lettrici a queste donne, li ho
invitati a sedersi nel dormitorio, accanto a loro, e ascoltarle parlare
come se si rivolgessero a loro. Una finzione, secondo me, può avere
maggiore impatto di un documentario a patto che faccia appello non solo
ai fatti ma anche all’emotività, cioè non solo al dato ma anche a ciò
che si è sentito.
[Alessandra Pigliaru 20/03/2021]
Nessun commento:
Posta un commento