mercoledì 13 marzo 2019

L'assassino timido, Clara Usòn

Chi ha letto Valori (Sellerio 2016), settimo romanzo di Clara Usón, si sarà certamente reso conto dell’abile gioco portato avanti dall’autrice: raccontare, mescolando fatti reali e immaginazione, storie distanti nel tempo e nello spazio, che sembrano non aver nulla a che fare l’una con l’altra e i cui fili, invece, si intersecano e si intrecciano, al punto da giustificare il «disordine» apparente della narrazione.
Sin dal suo debutto letterario con Noches de San Juan, nel 1998, Usón (nata a Barcellona nel 1961 e nota soprattutto grazie a un altro romanzo di grande successo, La figlia, sempre pubblicato da Sellerio) è andata definendo e raffinando questo procedimento di complessa «tessitura», fino ad arrivare al disegno quasi labirintico di L’assassino timido (Sellerio, pp.186, euro 15, traduzione di Silvia Sichel), la sua opera più recente e forse la più matura e personale.
IL PUNTO DI PARTENZA è la breve vita di Sandra Mozarovski – attrice del cosiddetto cine del destape, che tra la metà degli anni’70 e l’inizio degli ’80, venuta meno la censura franchista, sfornò innumerevoli pellicole ai confini del porno – morta diciottenne in un incidente mai chiarito (la vicenda, tra l’altro, nel 2013 ha attirato l’attenzione di un’altra scrittrice spagnola, Marta Sanz, che ne parla nel suo Daniela Astor y la caja negra), fonte di infinite voci su una presunta relazione con l’allora re di Spagna, Juan Carlos, dongiovanni compulsivo e ben protetto dalla discrezione dei media: voci di cui Usón dà conto, ma solo per constatare una volta di più la fragilità della versione ufficiale (la ragazza sarebbe caduta alle tre di notte dal balcone di casa, sporgendosi troppo mentre innaffiava le piante), anche se, tra le varie ipotesi, si fa largo quella che la splendida Sandra, forse incinta, si sia suicidata.
ED È PROPRIO LA FIGURA del suicida a giustificare il titolo – parafrasando Pavese, Usón lo definisce «un assassino timido» – e a sovrapporsi dopo poche pagine a quella di Sandra, prima attraverso la storia vera di due fidanzati che, nella Basilicata del 1975, si gettarono sotto un treno, e poi grazie a una girandola di citazioni letterarie e filosofiche, dalla quale emergono soprattutto i nomi di Camus, Pavese e Wittgenstein; sarà infine quest’ultimo a occupare con la sua superbia, le frasi lapidarie, l’attrazione per il gesto suicida mai consumato, la parte centrale del romanzo, condividendola però con la storia familiare di Clara, che intavola con lui una sorta di ironico contraddittorio e stabilisce continui e volutamente improbabili punti di contatto tra gli Usón e i Wittgenstein.
L’autrice ci regala così una trama continuamente spezzata, che rivendica sia l’accostamento di materiali alti e bassi, sia la discontinuità narrativa teorizzata da Cervantes: il lettore viene sbalzato dalla narrativa alla saggistica, dai conflitti di famiglia al ritratto di una Spagna della Transizione che, a suo tempo mitizzata, viene ora sottoposta a una revisione severa.
MA TUTTO TORNA, tutto si ricompone nell’ultimo capitolo, l’unico con un titolo («Vizio e perdizione»), in cui l’autrice, immaginando un proprio biopic interpretato da Mozarovski, ammette definitivamente che L’assassino timido è in realtà un’autobiografia per interposta persona, e, pur sfuggendo alle consuete convenzioni della «scrittura dell’io», depone le sue molteplici maschere per venire allo scoperto e ammettere ogni cosa, con asciutta e irresistibile ironia: sette tentativi di suicidio sempre contraddetti da una richiesta di soccorso, lunghi anni di dipendenza dai farmaci, le droghe del fine settimana che interrompevano la routine professionale della giovane avvocatessa Usón, le pastiglie mescolate all’alcol e a qualsiasi cosa si potesse porre tra sé e l’insostenibilità della vita, fino all’internamento in un centro di disintossicazione, alle crisi psicotiche, alla scoperta della scrittura come terapia e liberazione.
Sarà l’ostinazione della madre a trattenere Clara, a sventarne la vocazione suicida: una fortuna che non è toccata a Sandra Mozarovski, vittima sacrificale nella vita come nei film porno-horror in cui veniva violata e oltraggiata, mentre dal camicione bianco – quasi una divisa – affioravano i seni nudi, ad annunciare la pretesa di una nuova obbedienza da parte del corpo femminile, diversa da quella imposta da Franco, ma soggetta a norme altrettanto rigide.
E PROPRIO ALLA LUCE di questa incrollabile e inattesa tenacia materna, e dell’omaggio che Clara Usón le rende, L’assassino timido va letto non solo come un esercizio formalmente audace, come una riflessione filosofica sul suicidio, come il ritratto di una generazione in preda a un’ubriacatura esaltante quanto ingenua – quella dei giovani spagnoli usciti dalla gabbia del franchismo, e ancora ignari della futura trappola neoliberista –, come un viaggio iniziatico concluso dal classico «trionfo dell’anima sul male», ma anche come la storia della ritrovata solidarietà tra una madre che, nella Spagna del Generalissimo, ha dovuto vivere una vita decisa da altri (moglie obbediente, madre feconda, vestale della famiglia, priva perfino del diritto di aprire un conto in banca o di viaggiare senza il permesso del marito o del padre), cercando una via di fuga nell’alcol e in furie occasionali, e una figlia, Clara, rivoltosa, insonne, sempre in fuga, travolta da pulsioni autodistruttive.
Due generazioni di donne che si sono ricongiunte e comprese, e che si potrebbero prendere a simbolo dell’immensa forza dimostrata in questi anni dalle donne spagnole, che daranno filo da torcere, e molto, a chiunque voglia riportarle indietro.
[Francesca Lazzarato 13/03/2019]

martedì 12 marzo 2019

La mia guerra segreta, Philip O’Ceallaigh

L’Irlanda è terra di raccontatori, di contastorie. La cultura irlandese per tanti anni è andata a braccetto con l’oralità al punto che gli séanchai, ossia gli storyteller della tradizione gaelica, erano tenuti in gran considerazione nell’ordinamento sociale. Un popolo di parlatori che ha visto tra suoi migliori letterati grandi conversatori, come Shaw e Wilde, e poi Behan. E non a caso, la tradizione irlandese della short story, del racconto breve, è da sempre in grandissimo fulgore.
Esce ora per i tipi di Racconti edizioni, La mia guerra segreta (pp. 320, euro 17,00), ossia la sua seconda raccolta di racconti dal titolo originale The Pleasant Lights of Day. Un titolo ironico forse, perché di leggerezza si parla, ma non troppo, soprattutto in alcune novelle.
CON LA PRIMA RACCOLTA, Notes from a Turkish Whorehouse, si era affermato come voce vitale e originale sebbene non molto nota della nuova narrative irlandese. Con il secondo libro, Philip O’Ceallaigh, scrittore irlandese trapiantato in Romania, a Bucarest, ci restituisce la sua verve di narratore in grado di muoversi comodamente tra diverse tradizioni. Colpiscono l’ironia e il sarcasmo con cui affronta uno degli scrittori ahimè più popolari della contemporaneità, il brasiliano Coelho, ma anche le sue storie familiari dislocate in altrovi inaspettati, come Il Cairo, ad esempio. Qui incontriamo spunti di ispirazione non orientalista tutt’altro che trita, e certamente innovativa nel panorama irlandese. Quello che più si nota è infatti una familiarità con la creazione di un linguaggio al contempo intimo e non sentimentale, preciso e netto ma sempre ironico, come avviene nel racconto solo apparentemente funereo «Andarsene», pieno di considerazioni esistenziali che sanno di distacco e assieme di segreta passione.
È un mondo intriso di sensualità quello che ci consegna O’Ceallaigh, sin dalla primissima novella, in cui una storia di sesso si mescola a trame da fiction, e quello che abbiamo nel finale è il sintomo e simbolo di quel che deve essere un’opera aperta, mai conclusa, mai definibile, poiché rivissuta nelle letture che si susseguono, e che divengono mentali «ricreazioni».
IL TEMA DELLA SESSUALITÀ si mescola a riflessioni che hanno ogni tanto del religioso, se non a tratti del mistico, ma sempre con l’occhio alla terrestrità e alla caducità beffarda dell’umano. Questo avviene in «Tombstone Blues» e nel «Cantico dei cantici» ad esempio. Ma è senza dubbio «In un altro paese», la novella che più convoglia il senso dell’intera collezione e forse anche della dislocazione culturale e spaziale che l’autore ha scelto per sé allontanandosi dalla sua terra per accedere appunto ad altri lidi: «Ho attraversato il confine in un altro paese, stavolta sul lato orientale del mar Nero».
È un oriente, quello presentato, che non ha nulla di melenso, e tutto di misterioso ma non misterico. Un altrove cercato, anche in letteratura, non per svago, ma per necessità, per rivivere una nuova vita che non si conclude mai con la sua fine, perché della fine poco ci è dato sapere: «Avevo un posto dove vivere e pagavo le mie bollette in tempo. Avevo ripitturato i muri e comprato cose. Delle volte mi si otturava il lavandino e allora lo sturavo. Andavo al mercato e compravo da mangiare, poi lo riportavo a casa e lo mettevo in frigo. Nel fine settimana avevo qualcuno con cui bere. Dopo qualche mese ho incontrato una ragazza. Volevamo es sere felici assieme e per un po’ ci siamo riusciti».
[Enrico Terrinoni 12/03/2019]

venerdì 8 marzo 2019

prossimo incontro

Carissim*,
come in parte anticipato da Andrea, che ci guiderà nella lettura di GIUDA di Amos Oz, ci troveremo lunedì 11 marzo, a casa mia, dalle 21 in poi.
Per motivi organizzativi, se potete confermate la vostra presenza.
A presto
Silvia

mercoledì 6 marzo 2019

Le febbri della memoria, Gioconda Belli

«Quando si deve lasciare un posto, sono convinta che ci sia l’occasione di reinventarsi. Tuttavia, in un tempo in cui lo spostamento da un luogo a un altro è spesso una necessità e non un desiderio, per chi abbandona il proprio paese, la propria casa, rigiocare se stessi è questione più complessa». Gioconda Belli, scrittrice, giornalista e poeta i cui libri sono stati tradotti e letti a ogni latitudine. Sarà per il suo senso indomito di abitare la sua avventura terrestre, ma anche questo ultimo volume Le febbri della memoria (Feltrinelli, pp. 328, euro 18, traduzione di Francesca Pe’) si presenta in continuità con l’omaggio costante al suo paese natale, il Nicaragua.
COMPRENDERE di averlo vissuto e amato da donna conferisce al suo progetto letterario l’autenticità che è andata sempre cercando. Innamorato, selvaggio e discontinuo, il Nicaragua di Gioconda Belli è il luogo caro in cui si muove una storia di seconde possibilità. «È questo l’argomento del mio libro – ci dice raggiunta al telefono per qualche domanda. Ciò che racconto è antico, ho scavato nel passato della mia famiglia ed è emerso un intreccio di esistenze in cui ho riconosciuto di essere implicata anche io. Da ragazza sapevo di Graciela, mia nonna paterna. Era un personaggio misterioso, viveva a Matagalpa, una piccola città nel nord del Nicaragua. Si diceva che fosse la discendente di un aristocratico francese, Charles Theobald Choiseul-Praslin. La leggenda vuole che il re di Francia Luigi Filippo d’Orleans, nel 1847, lo avesse aiutato a fuggire quando sua moglie fu uccisa e lui venne accusato del suo assassinio».
Ma le febbri di cui è affetta la memoria sono presagi di creature frenetiche, che sanno il fuoco del possesso e lo sollevano fino alle nuvole, evaporato nel periplo dei continenti per poi custodirne il segno in scatole di biscotti danesi, da ritrovare dopo secoli in una vecchia soffitta.
«Di Charles, che poi diventa Georges, mi piaceva l’idea che fosse finito in Nicaragua nel periodo della febbre dell’oro in cui la gente cercava di andare in California dalla costa est degli Stati Uniti. Cercavano una strada alternativa a quella lunga che partiva da New York e attraversava lo stretto di Magellano, praticamente il confine del mondo, per poi dirigersi verso la California. Cornelius Vanderbilt inaugurò una «scorciatoia» proprio attraverso il Nicaragua, dove c’è un grande fiume e un lago – e tra il lago e l’oceano Pacifico ci sono solo 25 km. Quella rotta è stata un’importante parte della nostra storia, perché attraverso di essa giunse anche la prima invasione da parte di William Walker nel 1850».
Vegetazione lussureggiante in un clima tropicale, la scrittrice ribadisce ciò che è presente in ogni romanzo come in ogni sua dichiarazione di poetica – da La donna abitata (1988), a Sofia dei presagi (1990), Waslala (1996) e ancora Il paese sotto la pelle (2001), Nel paese delle donne (2011) e altri ancora -, ovvero che «la passione per il luogo in cui sono nata è politica ed erotica, ha a che fare con il mio corpo di donna, nella pelle che sta all’aperto sempre a contatto con l’aria, ne sono abbacinata». È qui che le esperienze di Gioconda, quelle degli anni a Managua, dell’esilio all’estero, in Messico e in Costa Rica, di opposizione a Somoza e di adesione al Fronte Sandinista, incontrano il dissenso radicale per la gestione di Daniel Ortega. Ancora una volta al centro una fedeltà totale a quel bene caro a cui vorrebbe riconoscere anche «una bellezza etica e morale, una terra in cui chi ci vive potesse avere ciò che merita, con dignità e giustizia. Non posso credere che, dopo esserci liberati di Somoza che ha governato il Nicaragua per 45 anni, ci troviamo ancora una volta nella tirannia di Ortega, ossessionato dall’idea di diventare presidente dopo aver perso le elezioni nel 1990. Ha avuto anche lui una seconda possibilità ma l’ha sprecata tornando ai suoi metodi autoritari, di cui aveva già dato prova durante la rivoluzione. Ha fatto un gran numero di accordi con persone corrotte per riprendere il potere e ci è riuscito nel 2007, rovinando la costituzione del nostro paese. A causa di tutto ciò lo scorso aprile c’è stata una grande rivolta popolare; è stata pacifica ma Ortega ha risposto con incredibile violenza, ci sono stati più di 300 morti, 700 persone sono finite in prigione, più di 30.000 hanno lasciato il paese. La situazione è terribile».
DARE VOCE ALLE DONNE, è stato per Gioconda Belli decostruire il sessismo e il privilegio anzitutto della società borghese in cui lei per prima è vissuta. La scoperta della libertà femminile è stato l’antidoto a una visione machista, quella che «per lunghi anni ha creduto di poter parlare anche a nome delle donne. Ho sempre creduto nel coraggio della sensualità, perché nei nostri confronti c’è molta malignità rivolta alla nostra sessualità, finanche ai nostri tratti, ci vuole un’appropriazione della sensualità nella gioia, senza sensi di colpa». Sono creature di straordinaria e primordiale energia quelle create dall’autrice di Una donna abitata che proprio tra quelle pagine trovano il contrappunto di una relazione tra donne inestinguibile; da dentro un albero come Ytzà, nel dialogo di una lotta dolorosa come per Lavinia, «sono entrambe delle guerriere – sottolinea Belli – che prendono parte alle lotte del proprio tempo e nel processo prendono coscienza della propria forza».
PARTIRE INVECE da una voce maschile, come quella di Charles de Le febbri della memoria, è dunque un esperimento; «non pensavo di scrivere alla prima persona maschile, ma è stato il romanzo a chiedermelo, il tono della storia mi è giunta attraverso questo mio presunto antenato e ho creduto che sarebbe stato interessante sentire me stessa nel corpo di un uomo, provare a vedere le donne dalla sua prospettiva, sia sessuata che storica. Mi interessava anche come ha saputo ribaltare se stesso, per trovare la propria umanità ha dovuto perdere il suo potere, i suoi titoli, la sua posizione, il suo senso di superiorità sociale, scoprire cosa si prova a essere uno qualsiasi. E trovo che questo processo sia affascinante. Anche chiedersi cosa diventa una persona quando viene spogliata delle sue terre, della sua lingua. In questo aspetto non ho faticato a immedesimarmi visto che anche ho vissuto sotto falso nome e in posti di cui non sapevo quasi niente. Eppure sono qui, a ricevere ancora il dono di essere letta e a poter dire che sì, la letteratura è la mia vita e sono fortunata».
Nell’estetica di una scrittura carica di corpi, maree notturne, amanti marini e sapori di cibi ormai perduti, le ferite non si rimarginano quasi mai. Però nella storia grande e tremenda c’è «un’idea per cui battersi. Così come lo è la felicità, anche l’utopia, non so come la si raggiunga, per me è lo stadio definitivo e più elevato della storia umana. Arrivarci non è la cosa importante, è la lotta che si intraprende a contare».
*

SCHEDA: Da sabato a «Dedica»

Dal 9 al 16 marzo, a Pordenone, la 25a edizione di «Dedica» che quest’anno ospita Gioconda Belli. Saranno dodici gli appuntamenti che faranno apprezzare al pubblico il suo universo poetico: impegno politico, suggestioni precolombiane e l’attualità di un continente
[Alessandra Pigliaru 06/03/2019]

martedì 5 marzo 2019

Una galleria di «hidden figures»

Il mondo della scienza ha ancora un enorme debito da saldare. Quello con le donne. Non solo per aver loro chiuso le sue porte per secoli. Ma anche per non aver saputo riconoscere i meriti di chi, faticosamente, è riuscita a raggiungere risultati straordinari. Poco a poco si vanno squarciando veli di omertà. Un esempio è lo splendido film Hidden Figures, dedicato a tutte quelle matematiche, fra cui l’ultracentenaria Katherine Johnson, grazie ai cui brillanti calcoli gli americani riuscirono a vincere la sfida di arrivare alla Luna. Ma che avevano due piccoli problemi: uno, che erano donne. L’altro che erano nere.
Ma di «figure nascoste», è costellata un po’ tutta la storia della scienza. Una delle storie più emblematiche è quella della nordirlandese Jocelyn Bell Burnell. Nel 1967 lei era solo una giovane dottoranda dell’astronomo Anthony Hewish.
Jocelyn Bell Burnell
Grande appassionata di astronomia da quando da piccola aveva seguito suo padre, architetto, mentre restaurava il planetario di Armagh (in Irlanda del nord), le era stato proibito a scuola, come donna, di appassionarsi alle scienze. Nel piano di studi c’era la cucina e l’uncinetto. Finalmente, riuscì a studiare fisica e a lavorare con Hewish alla costruzione di un radio telescopio all’osservatorio di Mullard, a Cambridge, dove ottenne il suo dottorato nel 1969. «Decisi di lavorare duramente perché quando mi avrebbero cacciato, non mi sentissi in colpa. Se fossi stata un uomo dell’Inghilterra dell’est sarei stata meno meticolosa». Due anni prima aveva notato dei segnali di grande regolarità provenienti da una sorgente stellare: era la prima scoperta delle pulsar, stelle di neutroni che ruotano molto rapidamente su stesse ed emettono un segnale a una frequenza determinata, come un faro. Così bizzarri da essere chiamati all’inizio «LGM» (Little Green Men, piccoli omini verdi). Alla fine la spiegazione si rivelò più prosaica, ma non meno interessante. Tanto è così che nel 1974 si meritarono il premio Nobel. A Hewish, naturalmente, che all’inizio lei faticò moltissimo a convincere della sua scoperta, non a lei. Il tempo ha rimesso le cose al suo posto, e oggi Bell è una rinomata astrofisica. L’anno scorso, le è stato dato il premio speciale Breakthrough in fisica fondamentale: 3 milioni di dollari (più del triplo del premio Nobel), che lei ha dedicato integramente a borse per studentesse e membri di minoranze etniche e rifugiati.
Un’altra storia conosciuta è quella di Rosalind Franklin. Cristallografa, autrice della famosa «Foto 51». Lavorava a Londra con Maurice Wilkins, suo arcirivale, dopo aver superato ogni sorta di ostacoli. Il padre voleva che restituisse la borsa per darla a qualcuno che la meritasse, l’università di Cambridge non conferiva «lauree» a donne fino al 1947 (lei l’aveva ottenuta nel 1941), i colleghi di laboratorio non la lasciavano accedere alla sala caffè, dove si discuteva informalmente di lavoro. Nonostante questo, riuscì come nessuno fino ad allora a «fotografare» la struttura a elica del dna. Wilkins passò di nascosto la sua foto a Watson e Crick, e i tre guadagnarono il Nobel nel 1962 per la straordinaria scoperta. Lei nel frattempo era morta di cancro, ma Watson e Crick non la menzionarono nemmeno nel loro discorso, e Wilson solo in un breve inciso.
Inge Lehmann
La danese Inge Lehmann (che visse ben 104 anni) nacque nel 1888, un’epoca in cui erano davvero poche le donne che lavoravano nella scienza. Eppure, venne educata in una scuola elementare (diretta dalla zia del fisico Niels Bohr, Hannah Adler) dove ragazzi e ragazze venivano trattati allo stesso modo, «una cosa che mi diede dispiaceri più tardi nella vita quando mi accorsi che non era l’atteggiamento generale», commentò. Lehmann studiò matematica e fisica, ma divenne una star nel campo della sismologia. Fu la prima infatti a capire, interpretando le onde sismiche generate dai terremoti più forti, che il nucleo della Terra è formato da una parte solida, al centro, circondato da una parte liquida. Era il 1936. Scrisse al nipote: «Sapessi con quanti uomini incompetenti ho dovuto competere – invano».
Lise Meitner
Infine, fra le molte donne dimenticate, ricordiamo la storia di Lise Meitner, fisica austriaca (e prima donna a ottenere la cattedra di fisica in Germania) che scoprì la fissione nucleare, scoperta per la quale il Nobel venne dato al suo compagno di laboratorio Otto Hahn nel 1944. Fu solo l’ultima delle ingiustizie: il governo non permetteva alle donne di studiare all’università e lei dovette studiare in una cantina. Nel 1907 iniziò a lavorare all’istituto di chimica di Berlino con Hahn, una collaborazione che durerà 30 anni. Quando i nazisti arrivarono al potere dovette fuggire in Svezia, da dove continuò a collaborare con Hahn per lettera. Ma nella pubblicazione chiave del 1939 dove spiegò la fissione nucleare, Hahn non incluse la collega, forse per proteggerla. Sta di fatto che il Nobel lo dettero solo a lui. Se lo meritava senz’altro – scrisse Meitner. – Ma anche io e Robert Frisch avemmo un ruolo non insignificante per capire la fissione dell’uranio». Dopo la guerra, nonostante Hahn abbia speso gli ultimi anni della sua vita a combattere contro l’uso delle armi nucleari, Meitner lo accusava assieme agli altri fisici tedeschi di aver offerto «solo una resistenza passiva al nazismo».
[Luca Tancredi Baroni 05/03/2019]