sabato 6 giugno 2020

La morte e la primavera, Mercé Rodoreda

Quanti sono i romanzi che la morte o la volontà del loro autore ha lasciato incompiuti, e che tuttavia sono diventati veri e propri classici? Vengono subito in mente America di Kafka e L’uomo senza qualità di Musil, ma se potrebbero citare altri, invariabilmente accompagnati dalle ipotesi sulla parte mancante e, a volte, da tentativi di concludere l’opera, come nel caso del dickensiano Il mistero di Erwin Drood.
Anche La morte e la primavera della catalana Mercé Rodoreda, da tempo riconosciuta come una fra le voci più significative della letteratura europea, è un romanzo incompiuto al quale l’autrice lavorò per molti anni, abbandonandolo spesso e mettendolo infine da parte, anche se, rientrata in Catalogna dopo il lungo esilio seguito alla sconfitta repubblicana, negli ultimi anni della sua vita affermava di volerlo terminare. Dopo la scomparsa della scrittrice, nel 1983, l’abbondante materiale conservato presso la Fundaciò Rodoreda ha tuttavia permesso di «ricostruire» tre differenti versioni del testo, appena apparso in italiano nell’ottima traduzione di Amaranta Sbardella per La Nuova Frontiera (pp. 124, euro 16,50), casa editrice che si è assunta il compito di riproporre ai lettori italiani l’intera opera dell’autrice barcellonese e ha ormai pubblicato tutti i suoi romanzi, tranne l’esile – e anch’esso incompiuto – Isabel e Maria.
A NURIA FOLCH, vedova di Joan Sales (editore di La piazza del diamante, il più noto tra i titoli di Rodoreda) si deve la prima versione, basata sul manoscritto del 1961 e su alcune varianti successive, e pubblicata nel 1986; Carme Arnau è responsabile della seconda, che privilegia le riscritture più recenti e che dal 2008 fa parte delle Opere Complete; Arnau Pons è infine il curatore di quella del 2017, che tiene conto del lavoro di Folch ma vi introduce profonde modifiche e lo correda di un saggio in cui sostiene, tra l’altro, che siamo davanti a un romanzo incompleto ma non inconcluso, con un inizio e un finale ben precisi, e che l’autrice se ne allontanò perché si sentiva in qualche modo sopraffatta dal dipanarsi di un’opera difficile e labirintica, «terribilmente poetica e terribilmente nera», come scrisse lei stessa a Sales.
L’edizione di La Nuova Frontiera si rifà a quella del 2008 (anche se prescinde dal suo taglio filologico ed esclude la segnalazione di note, correzioni e ripensamenti) e differisce quindi, almeno in parte, dall’edizione Sellerio del 2004, fondata sulla versione di Folch; ma il complicato percorso del romanzo non deve far pensare a un testo instabile e fin troppo manipolato, perché le discrepanze sono soprattutto stilistiche e la variante più sostanziosa è forse il peso crescente attribuito a un fabulatore ambiguo e perverso (il giovanissimo figlio del fabbro), una delle figure più inquietanti tra quelle di una narrazione dalle tinte gotiche, incantate e feroci, che secondo Pons si presenta come «un’opera sovversiva in cui il fantastico serve a promuovere con maggior forza una critica delle convenzioni e delle pratiche sociali».
MOLTO DIVERSO DAGLI ALTRI romanzi di Rodoreda, affidati per lo più al realismo e a una sottile analisi psicologica, La morte e la primavera sembra comunque preannunciato da racconti quali La salamandra, storia di una donna bruciata come strega per via dei suoi amori irregolari e reincarnata in un animale che sfida il fuoco, dalle presenze spettrali di Specchio infranto, dai microracconti fantastici di Viaggi e fiori e dalla meravigliosa parabola di Quanta, quanta guerra, denso di metafore e di apparizioni e costruito per la prima volta attorno a un protagonista maschile, in luogo dei personaggi femminili cui l’autrice ha saputo conferire uno spessore e un’autenticità fuori dal comune.
Nel romanzo vediamo inoltre riaffiorare alcune costanti, trasformate in squisite allegorie: il difficile rapporto tra maschile e femminile, l’incesto e la consanguineità, la delusione legata a relazioni ingannevoli e manipolatorie, la presenza di una natura sontuosa, carica di bellezza e di minaccia.
Anche qui la voce che racconta («Nel mio stile attuale: in prima persona e cercando di dire le cose nel modo più puro e più inatteso» leggiamo nella corrispondenza con Sales) è quella di un ragazzo senza nome, prima adolescente e poi uomo sofferente e disilluso, definito con rara efficacia dalla prosa cristallina e immaginosa di un monologo lungo quanto il romanzo.
Tracciando un cerchio perfetto, La morte e la primavera si apre e si chiude con un atroce suicidio, unica possibile rivolta contro le norme di una società chiusa – un «mondo secondario» magnificamente descritto in ogni più piccolo particolare -, collocata in uno spazio e un tempo indefiniti, che scrive il destino dei propri abitanti sin dalla nascita e sembra guidarli verso il Bosco dei Morti, dove ogni albero ha il nome di colui che verrà sepolto nel suo tronco, la bocca piena di cemento perché l’anima non fugga e non torni a spaventare i vivi.
LA BREVE ESISTENZA del protagonista, sottoposto alla stessa prova che ha già devastato la vita di suo padre (ogni anno un uomo muore o rimane sfigurato, mentre affronta il fiume sotterraneo che sembra attirare a sé le case del villaggio) è scandita da riti incomprensibili e segnata da infinite domande senza risposta, dall’impossibilità dell’amore, dal desiderio che lo spinge verso la giovane matrigna deforme, quasi una bambina.
Ed è proprio il desiderio, ogni genere di desiderio, a rappresentare la minaccia più grave per la comunità che vive all’ombra della montagna spaccata, soggetta a un signore invisibile e assediata dal terrore di nemici ignoti e senza volto, mai visti eppure temuti.
C’è chi ritiene La morte e la primavera un’allegoria del franchismo, oppure un romanzo di iniziazione che illustra tenebrosi riti di passaggio, o, ancora, una riflessione sulla fine della giovinezza, sul male e sulla morte, o una distopia che ritrae una società totalitaria che ha soppresso ogni forma di pensiero critico, o, infine, una messa in scena dei demoni personali di Rodoreda, la cui vita ha attraversato due guerre, misurandosi con un esilio durissimo e soprattutto con una lunga solitudine. Interpretazioni che appaiono riduttive se prese singolarmente, ma che tutte insieme concorrono a sottolineare la complessità del romanzo, le sue infinite possibilità di lettura, e soprattutto la sua sorprendente, innegabile modernità.
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SCHEDA: Dalla fuga sotto i bombardamenti alla luce di Piazza del Diamante

Mercè Rodoreda i Gurgui nacque a Barcellona nel 1908, in una famiglia della piccola borghesia dominata da un nonno eccentrico, appassionato di piante e giardini e cultore della lingua catalana. Spinta dalla famiglia, a vent’anni sposò il fratello maggiore di sua madre, un uomo maturo che l’aveva chiesta in moglie quando lei era appena tredicenne, e da lui ebbe un figlio: una maternità non desiderata e un matrimonio infelicissimo, al quale riuscì a sottrarsi scrivendo (oltre ai racconti pubblicati su riviste dell’epoca, tre romanzi che poi disconobbe e uno, Aloma, che le fruttò un premio importante), frequentando gruppi di giovani e brillanti intellettuali e lavorando, negli anni della Repubblica, per il Commissariat de Propaganda Antifeixista. Ormai divorziata, nel 1939 lasciò il figlio alle cure della nonna e con altri intellettuali catalani riparò in Francia, dove si innamorò Armand Obiols, critico acuto e scrittore mancato: un legame complesso e non del tutto felice, che tuttavia durò sino alla morte di lui.
La loro vita in comune cominciò con una fuga a piedi sotto i bombardamenti, nella Francia occupata dai tedeschi, e proseguì in estrema povertà e tra le mille difficoltà dell’esilio, finché negli anni ’50 la coppia riuscirà a trovare un lavoro dignitoso a Ginevra. Per molti anni Rodoreda non poté scrivere, impegnata com’era a sopravvivere e bloccata da una paralisi psicosomatica al braccio che le impediva di impugnare la penna; nel 1958, tuttavia, pubblicherà una splendida raccolta di racconti e, rimasta in Svizzera dopo il trasferimento di Obiols a Vienna, dagli anni ’60 lavorerà in assoluta solitudine alla maggior parte delle sue opere (racconti, romanzi, poesia e teatro), continuando a confrontarsi da lontano con il compagno, suo primo lettore e critico.
Il grande successo di La piazza del diamante, pubblicato nel 1962 e tradotto in tutto il mondo, segnerà l’inizio di una ininterrotta fortuna letteraria. Nel 1971, morto Obiols, Rodereda tornerà definitivamente in Catalogna, dove condurrà una vita estremamente appartata, senza riallacciare i legami familiari spezzati all’epoca della fuga, ma contando su pochi e fidati amici. Morirà nel 1983 a Romanyà de la Selva, dove si era fatta costruire un casa circondata da un grande e magnifico giardino.
[Francesca Lazzarato 6/06/2020]