sabato 31 agosto 2019

Zucchero e catrame, Giacomo Cardaci



«Dalla prima elementare avevo intuito che per stare a galla dovevo piacere agli altri»: è questo che scrive, dal carcere, Cesare Barozzi, diciannovenne protagonista del nuovo ottimo romanzo di Giacomo Cardaci, Zucchero e catrame (Fandango, pp. 282, euro 17,50). Cresciuto nella provincia di Udine, Cesare ha dovuto imparare presto a camuffare i propri desideri e la propria natura, fin dalle scuole elementari, quando suor Dolores – temibile insegnante nostalgica dei vecchi metodi educativi-punitivi, più simile alle Streghe dell’omonimo romanzo per l’infanzia di Roald Dahl – scoprì nel suo zaino Miss Raperonzolo dai lunghi capelli viola, costringendolo a testimoniarne il supplizio di nylon tagliato e plastica sventrata sulla cattedra. La sofferenza della bambola, quella mattina, avrebbe lavorato nella mente di Cesare per anni. Fortuna che in classe c’è Ines, ribattezzata Lines per via della pubblicità degli assorbenti. Lines che quando suor Dolores mette sotto chiave quel che resta di Miss Raperonzolo, dice a Cesare «Riprendiamocela». È in quel plurale che si annida la forza, la complicità, l’amicizia, e quel plurale è l’opposto della solitudine. Lines che quando anni dopo andrà incontro a Cesare in piazza Cairoli a Milano è talmente cambiata da non avere più un passato comune. È così che lavora il tempo, deforma i ricordi per rendere più sopportabili le storture della vita, o almeno per darle quel poco di coerenza che è necessaria a non soccombere del tutto.
MA LE INTERMINABILI GITE con i perfidi compagni di classe vengono archiviate quando il padre di Cesare, criminale e primo responsabile del senso di inadeguatezza del figlio, annuncia alla famiglia il trasferimento in città, in un monolocale claustrofobico nella periferia milanese, una periferia evocata da Cardaci con una potenza e una verità che si fa odore sulla carta. È nell’agglomerato di cemento che Cesare incontra per la prima volta Gabriele, «Gabbo», un sedicenne sfrontato e bellissimo che abita al piano di sopra; impossibile non vivere quell’incontro come un assedio, una presa, il primo grande amore della giovinezza assurdo e vertiginoso. «Allora confondevo l’affetto con la bellezza», ed è questa per Cesare una linea di demarcazione invisibile nell’adolescenza che lo porta col tempo a fidarsi di Gabbo e a preferire il dolore al nulla, il disprezzo alla disattenzione. «Capii che renderlo felice mi rendeva felice: anche se si trattava di una felicità prezzolata, destinata a svanire presto». Cesare desidera tutto di Gabbo, desidera il suo corpo da quando gli ha permesso di masturbarlo in camera davanti a un dvd porno etero, desidera essere lui quando Gabbo gli parla della ragazza che vuole conquistare.
IL DESIDERIO, nel romanzo di Giacomo Cardaci, è un motore neutrale: può spingere verso la vita o verso la distruzione. È così per Cesare, incapace di trasformare l’odio in oro come un moderno Mida metropolitano, sempre intento a fingersi esattamente come gli altri lo vogliono senza mai riuscirci. È tramite Gabbo che conoscerà Franco Mori, maniaco cinquantenne pronto a pagare qualunque prezzo per farsi umiliare sessualmente dai ragazzi che Gabriele gli procura. Emulando il suo amore impossibile, Cesare si renderà complice di quel giro di prostituzione, imboccando una strada senza uscita.
Cardaci ha scritto un mirabile libro sulla costruzione dell’identità negativa e lo ha fatto decidendo di narrare una storia feroce, disturbante, priva di redenzione e salvezza, dall’incredibile impatto emotivo, dimostrando una capacità romanzesca fuori dal comune. È un piacere e un dono, in tempi di dilagante (seppur valida e fortunata) autofiction, leggere Zucchero e catrame, uno dei romanzi più pudicamente politici e sfrontatamente etici di questi ultimi anni.

Iran

In Iran la lotta per le diseguaglianze di genere viaggia non solo su un paio di ruote sgangherate per le strade polverose di Isfahan, ma anche sui binari delle piattaforme social. Sono infatti decine i video di donne in sella a una motocicletta apparsi sul web dopo il ricorso alla Corte amministrativa di giustizia presentato da Fatemeh Eftekhari, trent’anni appena, appassionata di parapendio e sport estremi.
LA RAGAZZA, che da circa sei anni rivendicava il diritto a spostarsi pubblicamente con la sua moto, ha ottenuto all’inizio di agosto dal Tribunale di Isfahan il rilascio della patente di guida per motocicli. Anche se la sentenza si applica solo al caso specifico e non a tutta la popolazione femminile e può essere revocata in qualsiasi momento, si tratta di una piccola vittoria per le donne iraniane. Per Eftekhari, che dice di non credere nelle rivoluzioni, ma a «piccoli sorsi di cambiamento», seguire le vie legali è «il modo migliore e civile per ottenere il rispetto dei propri diritti e non crogiolarsi nello status quo». «Il codice della strada non menziona il genere sessuale. È il legislatore che però deve avere l’ultima parola», ci racconta Eftekhari. «Nelle condizioni socio-economiche attuali – continua – molte donne non possono permettersi di comprare un’auto. Una motocicletta può quindi essere una valida alternativa per muoversi liberamente sia nelle aree urbane che in quelle rurali. Ecco perché questa sentenza avrà un forte impatto sulla vita delle iraniane. Siamo ancora in attesa di vedere cosa accadrà al momento del ricorso, ma speriamo nel cambiamento».
ATTUALMENTE IN IRAN non ci sono leggi che vietano esplicitamente alle donne l’uso di moto e motorini. «Si tratta piuttosto di un modus operandi adottato arbitrariamente dalla polizia stradale e supportato dalle autorità religiose e dalle fazioni più conservatrici della società. È una questione legata all’equilibrio di poteri, non di giustizia», ci spiega Jasmin Ramsey, del Center for Human Rights in Iran con sede a New York. «Si vuole evitare di rilasciare le patenti per le due ruote, nonostante le donne possano guidare auto, bus e perfino camion».
Facile indovinare il motivo: i motocicli sono tra i mezzi più veloci per muoversi nel traffico. E in un Paese come l’Iran, spostarsi in modo autonomo equivale a ritagliarsi la propria fetta di indipendenza all’interno di un sistema dove il piatto della bilancia premia sempre il potere maschile.
PER CHI PREFERISCE interpretare la legge a righe alternate, una donna su due ruote è quindi una donna che rischia di minare l’immagine di famiglia raccontato dai religiosi, fatto di figure femminili dedite principalmente alla cura della casa e dei figli in nome della «modestia». A parte un timido appoggio alla causa delle motociclette proveniente anche dall’ala conservatrice, il caso di Eftekhari però rischia di restare un’eccezione.«Perché non rimanga tale, il Parlamento dovrebbe varare una legge ad hoc che non lasci dubbi sull’interpretazione del codice della strada. Ma questo non sta accadendo. Almeno al momento questo non è nell’agenda del governo», fa sapere Ramsey.
Eppure, nonostante il vuoto legislativo, le donne delle motociclette rappresentano ormai un caso trasversale all’interno della società iraniana. «Le motocicliste – spiega ancora Ramsey – si oppongono alle politiche discriminatorie e provengono da ogni strato della popolazione». Non a caso, alcuni dei video postati su Twitter sono stati accompagnati dall’hashtag #genderequality. Solo lo scorso luglio era apparso sui social un video in cui la campionessa iraniana di motociclismo Benhaz Shafiei veniva fermata da un poliziotto perché in sella alle sue due ruote.
«SHAFIEI È UNA DELLE TANTE donne che stanno facendo la storia, spingendo per il cambiamento», ha detto Ramsey. «È dalla Rivoluzione islamica che le attiviste per i diritti umani si battono per essere uguali agli uomini agli occhi della legge. Per usare le parole dell’avvocata Nasrin Sotoudeh, tutti hanno bisogno di “libertà, sicurezza sociale e giustizia”. Si tratta di un processo lungo e sfaccettato, che non può esaurirsi in un unico episodio».
[Melissa Aglietti 31/08/2019]

domenica 25 agosto 2019

Fridays for future

L’Amazzonia, il polmone della Terra, brucia, liberando milioni di tonnellate di CO2. La Siberia brucia, emettendo altro CO2 e immense quantità di metano. I ghiacci della Groenlandia si sciolgono a ritmo vertiginoso e così anche la banchisa polare, le calotte glaciali dell’Artico e dell’Antartico e tutti i ghiacciai del mondo. In India, in preda alla siccità, muoiono di sete migliaia di persone e in tutto il mondo, Mediterraneo e Italia compresi, si moltiplicano i fenomeni metereologici estremi: ondate di calore, tempeste tropicali, gelate fuori stagione.
Sono tutti effetti della crisi climatica in corso e al tempo stesso cause del suo rapido aggravamento. Di tutto questo non c’é alcun riflesso nel Parlamento italiano né nelle manovre per formare un nuovo governo. Le istituzioni del nostro paese non si sono solo allontanate dai cittadini (e viceversa). Sono ormai lontane mille miglia dalla realtà (come lo sono i media che si occupano delle loro vicende). Ma è così anche in quasi tutto il resto del mondo.
C’è però in Italia e in tutto il mondo un “popolo” che quei fatti li ha messi al centro dell’attenzione, delle sue preoccupazioni e della sua iniziativa: i giovani di Fridays for future, che è un movimento mondiale la cui crescita non si fermerà più; la rete di Extinction Rebellion; i tanti movimenti contadini che difendono un’agricoltura sostenibile come Via campesina che riunisce 400 milioni di agricoltori; i popoli indigeni in lotta contro la devastazione dei loro habitat, in particolarel’Amazzonia, oggi sotto attacco, ma che sarà al centro di un sinodo voluto da Papa Francesco.
È statisticamente quasi impossibile che tra i mille parlamentari italiani non ce ne sia nemmeno uno che non si renda conto di quanto sia criminale ignorare la crisi climatica. Se anche in pochi, approfittando della visibilità che avrebbero in questo momento, formassero un raggruppamento interpartitico, non per “mettersi alla testa” dei movimenti già attivi in questo campo, magari con mire egemoniche (non ne avrebbero alcun titolo), ma per porre la crisi climatica e ambientale al centro delle loro preoccupazioni, potrebbero gettare un pesante masso nello stagno delle trattative per la formazione del nuovo governo e tutto il quadro politico potrebbe venirne scompaginato anche nel caso di eventuali elezioni.
Si tratterebbe di mettere all’ordine del giorno, non solo del Parlamento, che su questo tema per ora è sordo, ma del pubblico più vasto possibile, non l’inserzione dell’ambiente come una postilla in programmi inconcludenti e di facciata, ma la necessità inderogabile di una svolta radicale: abbandonare al più presto i progetti, le attività e i consumi responsabili delle maggiori emissioni climalteranti per promuovere ovunque impianti, sistemi e consumi a emissioni basse o nulle. Molte misure da assumere sono impopolari e per molti inaccettabili.
Ma di fronte all’evidenza dei fatti questi atteggiamenti non dureranno a lungo anche perché i movimenti in campo per esigere un cambiamento radicale delle politiche cresceranno mano a mano che la crisi climatica farà sentire i suoi effetti.
Inoltre quei movimenti sono già fortemente intersecati dalle altre correnti di pensiero e di azione impegnate sulla prospettiva di un mondo diverso: il movimento delle donne contro il patriarcato e le sue tante manifestazioni, la solidarietà contro abbandono e respingimento dei migranti, le mobilitazioni contro la devastazione di territori e comunità in nome di progetti senza avvenire come NoTav o NoTap, i movimenti contro la guerra e le armi. Certamente più difficile, nell’immediato, sarà raccogliere adesione e rivendicazioni di chi oggi lotta o vorrebbe lottare per difendere reddito o posto di lavoro, contro disoccupazione e precariato, per la casa, la salute, l’istruzione.
C’è ancora da battere una cultura – negata a parole, ma confermata dalle scelte di tutte le forze politiche – che continua a contrapporre tutte queste cose alla difesa dell’ambiente; ma è e sarà sempre più chiaro che quelle rivendicazioni non avranno più alcuna possibilità di realizzarsi nella prospettiva di una generale catastrofe climatica.
Dalla capacità di affrontare qui e ora la questione della crisi climatica, senza aspettare che a muoversi siano altri paesi e altri Governi, ma con la convinzione che l’esempio ha un effetto trascinante e che chi la affronta prima si troverà in vantaggio mano a mano che gli effetti della crisi si faranno più pesanti, dipende alla fine anche la possibilità di ricondurre la politica al suo significato originario, che è quello di autogoverno. Cosa che non potrà mai realizzare una manovra chiusa nel quadro dell’attuale sistema politico, tutto legato al mito fasullo e ormai palesemente devastante della “crescita”. Il tempo per agire è ora. E se non ora, quando?
[Guido Viale 25/08/2019]

domenica 18 agosto 2019

Open Arms


«Sulla vicenda della nave Open Arms, Matteo Salvini scarica su Giuseppe Conte responsabilità che non gli competono». L’ammiraglio Gregorio De Falco, uomo di mare e senatore fuoriuscito dal Movimento, analizza i passaggi della catena di comando sugli sbarchi e ci trova numerose incongruenze. «Il decreto sicurezza bis ha formalizzato una circorcostanza che ha dell’inconsueto nell’ordinamento italiano – spiega De Falco – Bisogna premettere che stiamo parlando di una materia delicata: l’interdizione della navigazione alle navi straniere nelle acque italiane. Eppure il decreto stabilisce che il presidente del consiglio venga informato dopo che il ministero degli interni coi colleghi della difesa e delle infrastrutture e trasporti abbiano assunto una decisione».
Cosa c’è che non va in questo meccanismo?
Ci troviamo in contrasto con l’articolo 95 della Costituzione: come fa il presidente del consiglio a coordinare la politica del governo, come prevede la carta fondamentale, se in una situazione del genere viene soltanto informato in un secondo momento?
Come colloca la questione dei migranti della Open Arms in questo contesto?
Anche in questo caso, questi personaggi mostrano di volere sopperire a carenze culturali e politiche. Il ministro Salvini è consapevole di non aver mai avuto la potestà di vietare gli sbarchi, come pure ha più volte fatto. E quindi immagina che sia compito del presidente del consiglio. Eppure, questa responsabilità sta nella linea gerarchica del ministro Toninelli, individuata da articoli 80 e 65 del codice della navigazione in capo al comandante del porto. L’articolo 19 della convenzione di Montego Bay, che pure viene richiamato dal decreto sicurezza bis e dai provvedimenti in attuazione di questo, si riferisce al carico e allo scarico di cose o persone in violazione delle normative dello stato costiero da parte di nave straniera.
Ma l’efficacia del divieto di Salvini, Trenta e Toninelli che vietava lo sbarco. era stata sospesa dal Tar dal Lazio.
Per questo motivo, da quel momento riprendeva vigore il normale assetto di responsabilità. Quindi, chi può autorizzare lo sbarco è solo il comandante del porto, mentre il ministero dell’interno deve predisporre tutto per assicurare l’ordine pubblico e l’accoglienza a terra. Perché nel momento in cui la nave è di fronte al porto di Lampedusa non c’ è più margine tecnico per decidere dove deve sbarcare, a questa inerzia è corrisposto il provvedimento del Tar.
In questa fase si inserisce un altro organo. Risulta che il comando generale delle Capitanerie di porto avesse negato l’autorizzazione allo sbarco…
Proprio così. Un paio di giorni fa, quando la nave entrava in acque territoriali, veniva emanato un divieto di sbarco. Per la precisione: l’Mrcc, centro di coordinamento per i salvataggi marittimi, anziché agevolare l’organizzazione dei soccorsi ha posto il divieto di sbarco, sostanzialmente sostituendosi al giudice. Mi sono chiesto a che titolo, sulla base di quale fonte normativa, con quale motivazione e da chi fosse ordinato.
Non può essere stato il ministro competente, vale a dire Danilo Toninelli?
Quest’ultimo nel frattempo si era rifiutato di firmare un nuovo ordine, pare fosse stato già firmato da Salvini, che reiterava il divieto già sospeso. Ma qualcosa nella linea gerarchica di Toninelli sfugge, c’è qualcuno più realista del re. O che si sente re. Forse perché Toninelli non sa regnare.
Che relazione c’è tra questa confusione di responsabilità e una crisi di governo che è nata fuori dal parlamento e non si capisce come andrà a finire?
Siamo di fonte ad un’ordine che deriva da un soggetto non competente. Mi pare che si facciano degli annunci come è accaduto per la crisi. Non esiste la crisi di governo e non esiste il divieto di sbarco. Le persone soffrono sul nulla. Ci stiamo arrovellando sul nulla. Da una parte bisognerebbe far sbarcare questa povera gente, dall’altra mettersi a lavorare invece di fare annunci.

Memorie culinarie di un’infanzia felice, Alice Danchokh


Ode alla cucina tradizionale russa, celebrazione delle sue custodi, le nonne e le zie, ritratto poliedrico di una famiglia e di un paese, ricettario conviviale, Memorie culinarie di un’infanzia felice di Alice Danchokh racconta l’infanzia solare e golosa dell’autrice in un’Unione Sovietica fuori dai clichés della guerra fredda. Nata nel cuore dell’intelligencija moscovita, Alice cresce tra due kommunalki (appartamenti comunitari), quello dei nonni paterni nel quartiere dell’Arbat e quello della madre e della nonna materna, poco lontano dal Cremlino. L’estate parte all’avventura col nonno (che si consacra anima e corpo alla sua educazione tanto da esser soprannominato «il Pestalozzi dell’Arbat»), all’insegna della vita all’aria aperta e del gusto.
SIN DAL PRIMO SOGGIORNO in una dacia sovraffolata, impara a pelare le patate, a rompere le uova in una padella ben calda, a preparare la zuppa «del monastero», e ad approfittare della generosità della natura insieme agli altri bambini, facendo scorpacciate di frutti di bosco non sempre maturi («gli uccelli avevano la pazienza di aspettare, noi no»). A Koktebel’, in Crimea, rifugio eccellente di scrittori e poeti, da Pushkin a Cvetaeva, resiste al culto di Bacco praticato da tutti i residenti, vacanzieri inclusi, con un’intera generazione d’intellettuali moscoviti e pietroburghesi che matura all’ombra delle botti del rinomato vino bianco locale.
Lei professa più volentieri il culto del buon cibo, convertita in tenerissima età dalla nonna materna, Anna Vassilievna, vera maga dei fornelli, che ha il potere di «tramutare cose da nulla in meraviglie», gli ingredienti più semplici in prelibate pietanze, le ricette popolari in capolavori festivi, e persino la sua infanzia contadina nella remota Siberia, spazzata via dalla rivoluzione del 1917, in favole della buonanotte per la nipotina insaziabile di storie e sapori.
Tra i suoi capolavori, i Pelmeni (piccoli come l’unghia di un pollice, «scivolavano nello stomaco senza che si avesse il tempo di masticarli correttamente, mentre il brodo e il pepe nero macinato bruciavano il palato, e la panna sembrava esclamare ’ehi mi avete dimenticata!’»). La cucina della «nonna Stella» cui l’autrice bambina rende visita ogni estate a Nicolaev (Ucraina), non è da meno. Alice rinuncia ai giochi preferiti per assisterla nella preparazione dei Vareniki alla ciliegia. Con un bicchiere ritaglia i dischi di sfoglia sottile, su cui posa lo zucchero e tre ciliegie snocciolate.
RACCHIUSI A MEZZA LUNA, lessati e conditi con un caldo sciroppo di ciliegie, una volta a tavola questi dolci spariscono in un baleno. Quasi come la monumentale Paskha, frutto degli «sforzi titanici» di tutta la famiglia dal venerdì santo, servita al pranzo di Pasqua a parenti ed amici. Di questa piramide tronca a base di formaggio fresco, restano sempre poche briciole che la bambina mette rapidamente in salvo per godersele l’indomani, con un pezzo di Kulìc, l’altro dolce pasquale tradizionale di cui è ghiotta. .
MA NON TUTTE le specialità russe sono così gradite alla piccola Alice. Il caviale nero, ad esempio, le ricorda «il catrame utilizzato per riempire i buchi dell’asfalto», e vani restano i tentativi di convincerla a mangiarlo per le sue qualità nutritive. Preferisce il «caviale fresco» di melanzane, quello della nonna. Pure, come tutti a Nicokolaev, sgranocchia semi di girasole, condividendo questo «oro nero» con compagne e compagni di giochi. Ben presto però, ai giochi Alice preferisce la lettura. Stringendo amicizie esclusive con i libri, passa le ore a divorare romanzi insieme a una «quantità inimmaginabile di mele».
NATURALE QUINDI che sorga in lei il desiderio di assaggiare quella tazza di cioccolato fumante, delizia delle sue eroine di carta. Ma quando la nonna lo esaudisce, scopre con orrore che l’ingrediente principale altro non è che il cacao «etichetta d’oro», servito nei campi di pionieri e a scuola, che lei detesta, ed è la «più crudele delusione culinaria» della sua infanzia.
Lieta occasione di un’inatteso accostamento tra narrativa e realtà è invece il ritorno a Mosca della zia Natacha. Partita in Inghilterra alla fine degli anni Venti, la zia aveva potuto riallacciare i rapporti con la famiglia solo dopo la morte di Stalin e il 20esimo congresso del partito nel 1956. Per la sua prima visita, nel 1969, la famiglia organizza una grande festa e, nonostante la penuria cominci già a provocare «file interminabili» davanti ai negozi di alimentari, la tavola si ricopre, come per incanto, di cibi deliziosi, proprio come nei racconti.
NON MANCANO i Pirozhki della nonna paterna, ripieni di cavolo e uova, inimitabili: «ho visto decine di volte mia nonna preparare l’impasto, stufare il cavolo nella padella tonda di ghisa, l’ho pure aiutata a tagliare il cavolo in quadratini che rimestavo col cucchiaio per farli ben dorare nel burro. Ma mai sono stata capace di riprodurre la sua opera eccellente. La pasta lievitata sceglie le mani che la preparano», riconosce la scrittrice.
Come in una scena del Il maestro e Margherita di Bulgakov, allora ancora inedito, la zia Natacha arriva con una valigia carica di doni che, contrariamente al romanzo, non evaporano, anzi, verranno conservati fedelmente per decenni. Da Mosca, la zia riparte per Londra con la valigia piena di prelibatezze, tra cui una Pastila bianco-rosata, il suo dolce preferito, e un chilo di caviale in due sacchetti di cellophan nascosti dentro il reggiseno acquistato per questo «trasporto di contrabbando» oltre la cortina di ferro.
Col mutamento urbanistico del centro di Mosca, molti cittadini traslocano negli appartamenti individuali dei nuovi palazzi della periferia. Ma i nonni di Alice rifiutano di lasciare il quartiere e si trasferiscono in una kommunalka di un vecchio palazzo del centro abitato da personalità bolsceviche in pensione. Condividono così l’appartamento con Ludmilla Ivanovna Krassavina, che nel 1917, aveva copilotato l’instaurazione del potere sovietico in estremo oriente. Vittima delle «grandi purghe», condannata nel 1937 per spionaggio, questa «onesta comunista» non si dichiarò mai colpevole, nonostante le atroci torture, e solo dopo la sua «riabilitazione» godrà di tutti i privilegi dovuti al suo operato. Fautrice di una cucina genuina, Ludmilla apporta nuovi piatti al desco familiare, tra cui una versione rivoluzionaria delle barbabietole stufate, adottata all’unanimità.
TRE ANNI PRIMA della perestroika, il vecchio palazzo si riempie di crepe e gli anziani inquilini verranno trasferiti d’urgenza in un altro quartiere in costruzione. Ma Ludmilla non sopravviverà al crollo dell’Unione Sovietica. Un crollo impensabile nella fanciullezza di Alice Danchockh, quando la destalinizzazione promette ben altro avvenire, sintetizzato in un discorso di Krusciov, diffuso dall’altoparlante del villaggio in cui trascorre le vacanze.
Il Primo segretario del Comitato centrale del Pcus vi afferma che l’entrata nell’era del vero comunismo di lì a pochi anni avrebbe portato «la felicità totale e definitiva» secondo la parola d’ordine «da ognuno secondo le sue possibilità e a ognuno secondo i suoi bisogni». Lasciando gli adulti a discutere sul senso di questa frase, Alice raggiunge allora gli altri bambini che preparano un fuoco per abbrustolire il pane. Non sa ancora, che, insieme al pane, condivide già con loro quella « felicità totale e definitiva» annunciata per il futuro, presente invece tutta intera nel qui e ora della sua infanzia.
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SCHEDA:
Più volte vincitrice del premio nazionale russo «Miglior libro dell’anno», editorialista della «Literaturnaya Gazeta», Alice Danshokh ha pubblicato sei saggi su temi culturali (tra cui un libro su Firenze). Le sue «Memorie culinarie di un’infanzia felice» pubblicate in Russia nel 2015 (seconda edizione 2019), sono tradotte in francese (Editions du Rocher, 2017) e in inglese (Austin Macauley Publishers, 2019). A settembre, uscirà a Mosca il suo settimo libro «Storia della malattia o diario della salute»
[Giannina Mura 18/01/2018]

venerdì 16 agosto 2019

Kitchen», Banana Yoshimoto

Quando la traduzione italiana di Kitchen cominciò a invadere gli scaffali dei supermercati, tofu era solo una parola esotica e buffa. Nessuno avrebbe immaginato che a distanza di quasi trent’anni avremmo tutti, ben più di una volta, avuto a che fare con quella inconsistenza che i protagonisti della storia si ritrovavano di tanto in tanto sotto i denti.
La scrittura dell’autrice del piccolo volume – una ragazza di Tokyo allora poco più che ventenne che aveva scelto un nome insolito per presentarsi al pubblico, Banana – poteva forse apparire così a chi dopo mesi di file alla cassa a sbirciarne la copertina, sovrappensiero lo aveva lasciato scivolare sul nastro di gomma insieme a una fila di pomodori e tre pacchi di spaghetti.
C’ERA, IN QUEL MUCCHIETTO di pagine tenute inchiodate da una sola parola straniera, qualcosa di magnetico. Il corpicino ripetuto in serie della donna in miniatura vestita di bianco – capelli scuri di un taglio asimmetrico, mani nascoste dietro la schiena a coprire, chissà, una borsa ripiena di sedani – se ne stava come sotto vetro, sezionato, depositario di un segreto misteriosamente riproducibile.
«Non c’è posto al mondo che io ami più della cucina», il romanzo iniziava così. Poi la prosa si faceva evanescente, si aveva l’impressione che le frasi evaporassero, la carta tratteneva un rimasuglio sminuzzato di fatti e di senso che due bacchette non sarebbero bastate ad afferrare. Nel romanzo morivano tutti ed era come se non fosse morto nessuno, i due protagonisti si aggrappavano l’una all’altro senza slanci – a patto di percorrere chilometri di notte pur di condividere un riso takeaway con sopra del maiale fritto. Chiamavano la solitudine solitudine, e la nostalgia nostalgia. I loro corpi non si toccavano neanche davanti a un piatto di ramen.
SEMBRAVA DI LEGGERE un cartone animato, e allo stesso tempo di non leggere niente. Mancava sempre qualcosa, e forse mancava il sale, la salsa di soia, un finale sufficiente a giustificare i milioni di copie vendute, gli adattamenti per il cinema e la televisione, il riconoscimento a cui quel titolo stava andando incontro a livello internazionale. La colpa era delle traduzioni, dell’autrice, della cultura di massa, di una generazione cresciuta a pane e manga che di Tokyo pensava di conoscere molto e invece non sapeva abbastanza.
SI TRATTAVA O NO del nuovo capolavoro giovanile della letteratura giapponese, o era la prima di una lunga serie di trovate facili destinate a ragazzine sensibili alle avvisaglie di una depressione globale? Ci furono diverse risposte, ma le domande probabilmente erano sbagliate. Una cucina di notte scintilla sempre davanti alla luce di un frigo, e alcune immagini, che ci piaccia o meno, sopravvivono anche alle trame scadenti. Le cucine di Kitchen esistono ancora nei sogni e nella realtà e fanno la loro parte mentre tutti dormono. Non sono semplicemente stanze di una casa, ma orologi che seguono un proprio andamento. In questi luoghi-soglia il tempo scorre regolare, goccia a goccia, poi si ferma.
È qui che la protagonista Mikage ricompone il puzzle di sé nel complicato tentativo di digerire un deserto pronto a trasformarsi in vertigine, la scomparsa dei suoi familiari. Ci si deve sentire così a scampare un’estinzione, un cataclisma: sfortunatamente ancora vivi e allo stesso tempo per fortuna appena nati, pronti a tutto – consapevoli che nel «susseguirsi delle notti e dei risvegli che verranno, uno dopo l’altro, anche questo momento diventerà un sogno». È qualcosa che, presto o tardi, capita a tutti. Non conta se saremo rimasti gli ultimi del nostro sangue, o semplicemente una sera non avremo più nessuno a cui telefonare: c’è una legge spietata, dice che anche nel peggiore dei casi dovremo comunque mangiare qualcosa.
Per Mikage si tratta di una data spartiacque, la prima volta in cui non ci sarà nessuno a prepararle niente. «Siamo rimaste solo io e la cucina. Mi sembra un po’ meglio che pensare che sono rimasta proprio sola», si ripete prima di addormentarsi sopra a un futon, ai piedi del frigorifero. Una scena che potrebbe durare per sempre se Yuichi Tanabe, il ragazzo del negozio di fiori, non suonasse alla porta invitandola a trasferirsi nell’appartamento che condivide con Eriko, la sua madre trans – il padre biologico che, rimasto vedovo, ha intrapreso una inverosimile transizione. «Diventare donna è terribile, sai?», dirà una sera a Mikage che donna sta per diventare, a forza di fare i conti con i suoi mai più.
MIKAGE RINTRACCIA se stessa nell’andirivieni accidentato tra la sua vecchia cucina e quella dei Tanabe, nel ruotare ininterrotto delle asciugatrici dove ripone strofinacci da smacchiare, nel vapore che resta sospeso fuori dalle finestre. Il suo alfabeto ha la forma di scodelle e pavimenti verde chiaro, padelle in Silverstone e pelapatate, ma si trova da un’altra parte rispetto alla semiotica che Martha Rosler anni prima aveva elaborato sbattendo uno alla volta sopra a un ripiano gli strumenti di una routine opprimente – la «soggettività imbrigliata» amplificata dalle dimostrazioni televisive di Julia Child negli Stati Uniti degli anni ’60 e destinata a finire sottotraccia nei deliri dello show cooking contemporaneo. Nelle cucine di Yoshimoto ci si affida al ronzio protettivo di un frigorifero, ci si appoggia agli sportelli, il tavolo non c’è, a terra si sistemano cuscini e piccole zuppiere ricolme di minestre e insalate di cetrioli, il tè ha un’ombra verde che si riflette tremolante sulle superfici.
DAVANTI A UN UOVO in camicia affogato in un groviglio di noodles, appena prima di addentare un cubetto di tofu fritto o la pastella di una tempura, le persone incontrate per caso o per fatalità finiscono per assomigliare a un cane che avevamo e che adesso non esiste più, le centrifughe sembrano prodigi dell’anima, capaci di tirar fuori succhi da qualsiasi cosa. Ci sono bicchieri comprati per dono, in queste cucine, talmente «speciali» da far «salire le lacrime agli occhi». E ci sono lavelli di acciaio inossidabile eppure sempre da pulire per iniziare a schiarirsi le idee nei momenti di confusione. I pavimenti sono disseminati di pezzettini di verdura, di tanto in tanto un nuovo marchingegno viene sfilato da una grossa scatola. Se la stanza adibita alla cottura dei cibi ha sempre rappresentato lo spazio della segregazione già solo per il fatto di trovarsi separata dal resto della casa nelle planimetrie, qui coincide con un ambiente dai margini imprecisi, che sconfina verso un divano largo, davanti a un televisore, in prossimità di una porta d’ingresso.
IN CUCINE come queste non esistono breadwinner e angeli del focolare – che siano madri-padri, ragazzi tristi o ospiti inattesi, il piano cottura è alla portata di tutti. È davanti alle piastrelle ancora luccicanti, alle fiammelle dei fornelli appena accesi, che avviene l’incontro di solitudini, il recupero della memoria onirica, la presa in carico di sé. Le cucine di Kitchen hanno dimenticato l’oppressione, scintillano anche quando i fornelli sono sporchi di grasso e i coltelli arrugginiti. Sono l’anticamera dell’indipendenza, lontane anni luce dalla cucina dove April, in Revolutionary road, prepara una impeccabile colazione per Frank, suo marito, un attimo prima di procurarsi un aborto. Da quella in cui Laura Brown, in Le ore di Michael Cunningham, prova a fare una torta per il compleanno di Dan e non ci riesce.
Sembrano altrove persino rispetto alla cucina in cui la Dorothy di Rachel Ingalls tagliuzza avocado per un amante dalle sembianze di rana. Stavolta non c’è nessuno da servire e tutti sono rimasti orfani, la scelta è tra comporre un’altra lista della spesa o dimenticarsi di sé.
[Claudia Bruno 5/08/2019]

sabato 10 agosto 2019

Condivido

"Solo un paese che ha smarrito il più elementare alfabeto civile e costituzionale può assistere in silenzio a un vicepremier di minoranza di un esecutivo che apre la crisi di governo, convoca il Parlamento ed evoca lo scioglimento delle Camere, come se fosse contemporaneamente il Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica in carica.

Solo un paese che ha perso ogni dignità può accettare senza battere ciglio che un capopartito chieda di essere investito di “pieni poteri”, neanche fossimo nell’ottobre del ‘22.

Solo un paese che ha perduto completamente il senso delle istituzioni può rimanere zitto mentre un ministro si rivolge a parlamentari della Repubblica eletti invitandoli ad “alzare il c***” e presentarsi in Aula il prossimo lunedì, come se fossero pedine alle sue dipendenze.

Non siamo più di fronte alle sbruffonate di un cialtrone sulla spiaggia con un Mojito in mano. Queste sono prove tecniche di regime. E, se può fare tutto questo, se può spingersi tanto in là, non è solo per i 10 milioni di italiani che lo applaudono, ma per i 50 che stanno zitti.

Ogni nostro silenzio, ogni nostro arretramento, è un segnale di resa delle democrazia e delle istituzioni. È una tacca in più nella discesa verso l’abisso e un piccolo assaggio di quello che sarà. I campanelli d’allarme nella storia suonano sempre fortissimi, solo che non ci sono mai abbastanza orecchie ad ascoltarli."
(Lorenzo Tosa)

mercoledì 7 agosto 2019

Il ricordo di Obama: «Che dono poter respirare, almeno per un tempo, la stessa aria»


A differenza di molti paesi europei – scriveva Toni Morrison, quando forse era ancora lecita questa illusione – gli Stati uniti considerano la bianchezza una forza unificante. Qui, per molti, la definizione di ‘americanità’, è il colore».
ERA NOVEMBRE DEL 2016 e l’elezione di Donald Trump aveva traumatizzato profondamente l’America pensante. In un saggio per il New Yorker, Morrison, prima e ancora unica donna afroamericana insignita del premio Nobel, stilava parole intrise di disgusto e sarcasmo. «Per riportare la bianchezza al precedente lustro come marcatore di identità, molti americani bianchi stanno facendo sacrifici personali», affermava. I «sacrifici» comprendevano l’abbandono della dignità e la vigliaccheria, fino all’incendio di chiese e gli attentati ai fedeli. Le parole, riferite alla strage perpetrata qualche mese prima da Dylann Roof alla Emanuel Ame church di Charleston, sono ancora più pesanti lette due anni – e una mezza dozzina di attentati suprematisti – dopo.
IL CATTIVO PRESAGIO di Morrison era – ed è – condiviso da molti afroamericani e intellettuali che leggono gli Stati Uniti trumpisti come un’ineluttabile restaurazione di antichi mefitici equilibri – il tentativo di ripristinare il segregazionismo da cui per secoli il popolo afroamericano ha tentato di emanciparsi.
Tanto più doloroso era per lei, inarrivabile poetessa dei fantasmi che dalle paludi e dalle piantagioni sudiste tormentano ancora la psiche e gli incubi della nazione. Come ha detto ieri Joyce Carol Oates, «spezza semplicemente il cuore che non abbia potuto sopravvivere all’oscurantismo del razzista» nella Casa bianca.
PER MORRISON e altri luminari letterari che hanno articolato lo sguardo afroamericano sul destino tortuoso del proprio popolo, il presente equivale a una tragedia nazionale e, al contempo, il prosieguo naturale di una epopea tragica. Come ha scritto Ta-Nehisi Coates, la stagione che dopo mezzo secolo di progressi sui diritti civili si ritorce su se stessa in un’implosione di razzismo e suprematismo istituzionale riproduce la reazione seguita alla breve emancipazione degli schiavi, attinge a un torbido rigurgito. E allo stesso humus in cui Morrison radicava le sue storie oniriche e animiste di fatali destini.
Toni Morrison aveva coniato per Bill Clinton la definizione di first black president, «il primo presidente nero» in virtù di un’affinità «culturale» di sudista figlio di madre single cresciuto in povertà nell’Arkansas. È giunta a contemplare nell’autunno della vita, il «first white president» (citazione sempre di Coates): il primo presidente eletto specificamente per ristabilire gli equilibri dopo «l’ingiuria» di Obama.
PRIMA, L’ACCELERAZIONE storica di questi ultimi anni l’aveva portata ad assistere all’insediamento proprio di Barack Obama. Aveva dichiarato allora di essersi per la prima volta sentita «americana» e «potentemente patriottica…come una bambina». Da lui avrebbe anche avuto la medal of freedom (assieme a Bob Dylan e Cesar Chavez), onorificenza dovuta di una nazione che fatica tutt’ora a riconoscere i contributi delle «minoranze». «Alcuni (dei premiati) forse non conosceranno mai del tutto la propria influenza o il contributo che hanno dato – aveva detto allora il presidente – è nostro dovere trasmettergli il senso dell’impatto che hanno avuto sulle nostre vite». E ieri Obama ha unito la propria voce al coro dei ricordi: «La sua scrittura era una meravigliosa ed eloquente sfida alla nostra coscienza e alla nostra immaginazione morale. Che dono poter respirare, almeno per un tempo, la stessa aria».
La scrittrice aveva sostenuto di voler dare alla letteratura nera la stessa complessità «del jazz o della pallacanestro». «Poet laureate» dei fantasmi schiavisti – e del peccato originale americano – non conosceva compromessi. A chi invocava l’archiviazione della dolorosa storia aveva replicato: «Quando un poliziotto sparerà alla schiena di un adolescente bianco disarmato, quando un uomo bianco verrà condannato per lo stupro di una donna nera, allora sarò d’accordo con voi».
SOPRA A TUTTO, c’era l’amore del linguaggio, un senso di meraviglia per la potenza della parola. In The Pieces I Am, il documentario a lei dedicato con la partecipazione di Angela Davis, Fran Lebowitz, Walter Mosley e Russell Banks, presentato al Sundance scorso, Morrison ricordava come il nonno si vantasse sempre con lei di aver «letto la bibbia» – negli anni in cui agli afroamericani era ancora vietato leggere – e di aver imparato da lui a concepire la parola e la letteratura come atto rivoluzionario. Un atto cui ha dedicato tutta la sua vita.
[Luca Celada 07/08/2019]

È morta a 88 anni la scrittrice di «Amatissima», nobel nel 1993

Una sera a Harlem, poco dopo l’assegnazione del Premio Nobel a Toni Morrison, vidi un cartello nella vetrina di una piccola libreria. Diceva: «Congratulazioni, Toni Morrison, la nostra amatissima» (our beloved).
La prima volta che ebbi l’emozione di incontrarla le domandai: «Che effetto le fa quel “nostra”?». «Non mi dispiace affatto» rispose lei: «Anzi, mi fa piacere assumermi la responsabilità che si accompagna col fatto di essere rappresentativa. Non mi ci obbliga nessuno, e mi hanno avvertita più volte che poteva essere un peso troppo grande. Ma nei miei libri come nella mia vita io penso molto alle persone che non hanno mai potuto parlare, i ragazzi con le menti bloccate, nelle strade, nella droga. E penso al debito che ho verso le persone che hanno fatto delle cose da cui io ho tratto dei benefici. Penso che non sarebbe giusto dimenticare quel debito, e prendo su di me il debito di persone che non conosco. Perciò quel cartello è un segno di riconoscimento a cui tengo molto. Perché vuol dire che non sono sola. C’è stato chi ha fatto cose molto importanti affinché io non fossi sola e affinché potessi essere il più libera possibile. Questa libertà comporta obblighi, e mi dà forza: ci sono moltissime cose che non riuscirei a sopportare, se dovessi farlo solo a mio nome».
Diceva Toni Morrison: «Scrivo qualcosa che ho cominciato a chiamare letteratura da villaggio, letteratura per il villaggio, per la tribù. Letteratura contadina per la mia gente». Donna e nera, scrive grazie alla sua gente, e scrive per la sua gente, nella lingua della sua gente. Si mette in un angolo, e quell’angolo diventa il centro da cui cambia la coscienza di tutti. La domanda essenziale è sempre la stessa: che cosa vuol dire essere umani. E, come Primo Levi, risponde che solo coloro la cui umanità è stata freddamente messa in dubbio – Levi equiparato dai nazisti a vermi e insetti, lo schiavo Frederick Douglass catalogato fra i cavalli e i porci della piantagione, la sua protagonista Sethe di cui il padrone insegna a distinguere «su una colonna i lati umani, su un’altra quelli animali», il suo personaggio Paul D che impara a sentirsi inferiore anche a un animale da cortile – solo loro, a cui è stata negata, possono insegnare a tutti noi che cosa vuol dire umanità. «E nessuno, nessuno al mondo, avrebbe elencato su un foglio le caratteristiche animali di sua figlia, sotto l’apposita colonna».
La letteratura di villaggio di Toni Morrison è letteratura di battaglia, rivendicazione di umanità e strumento della sua ricostruzione. Solo lei riesce a tenere insieme due modalità che nella storia della letteratura afroamericana sembravano in conflitto fra loro: la denuncia dell’oppressione (Richard Wright) e l’esaltazione della bellezza e grandezza della cultura afroamericana (Zora Neale Hurston). Toni Morrison sapeva che quella bellezza nasce e vive under duress, sotto costrizione, ed era un modo per non farsi completamente possedere dall’oppressione, per sopravvivere, per resistere e per combatterla.
In tutta la sua opera coscienza politica e bellezza sono inestricabili: oggi, ha scritto, si pensa che «se un’opera d’arte ha un minimo di impatto politico, allora è corrotta. Io penso esattamente il contrario; è corrotta se non ce l’ha», perché «l’arte migliore è politica e devi essere capace di farla incontestabilmente politica e irrevocabilmente bella al tempo stesso».
COMINCIA TUTTO con la lingua, col doloroso piacere del suo linguaggio «ruvido, sedizioso, aggressivo, manipolativo, inventivo, lacerante, mascherato e smascherante», «parlato e parlante, aurale, colloquiale». Diceva: «Voglio intrecciare il dialettale con il lirico, con il linguaggio standard e con quello biblico, perché è questa l’eredità della mia famiglia». Possedeva e amava pienamente il dialetto e il folklore afroamericani, ma sapeva che la sua eredità culturale era più vasta, e abbracciava e trasformava a suo modo l’intera gamma dei linguaggi dell’America. Cultura afroamericana non è un ghetto ma un orizzonte di possibilità tenute insieme dalla bellezza.
La bellezza – cercata, descritta, riconosciuta, creata – è uno dei pilastri su cui si regge la sua arte. L’altro pilastro è l’amore. Diceva: «Cerco di arrivare a tutti tipi e definizioni dell’amore». Due romanzi hanno l’amore nel titolo: Beloved (1987) e Love (2003); ma una interrogazione sulle possibilità, i rischi, l’essenza, l’assenza dell’amore ricorre e si rinnova in tutta la sua opera. La «connessione» che tiene insieme la trilogia storica Beloved, Jazz e Paradise, diceva, «è la ricerca della persona amata».
Come la bellezza, anche l’amore è under duress: come posso amare me stessa quando sono collocata alla stregua di un animale da fattoria, come posso amare i miei figli quando non mi quando sono proprietà di altri? La violenza distorce anche l’amore, il modello della schiavitù come proprietà e possesso di un altro essere umano, de quello del capitalismo come brama di possesso, interferiscono con le forme possibili dell’amore. «Troppo spesso», dice Morrison, «l’amore consiste nel possedere un’altra persona». «La sola cosa importante che devi sapere: possedere le cose, e che le cose che possiedi posseggano altre cose. Allora possiederai te stesso e anche gli altri», dice il padre al protagonista di Song of Solomon.
Schiavitù e capitalismo – possesso delle cose, possesso delle persone, possesso fra le persone: come ha scritto Jean Wyatt, una delle sue lettrici più acute, «in tutta la sua opera scorre un tema dominante: la possessività distrugge l’amore». Anche questa è una lezione per tutti; ma ce la insegnano soprattutto coloro che sono stati «posseduti» – oggetti di proprietà e, soprattutto se donne, soggetti violati.
C’è una scena in The Bluest Eye in cui due ragazzi neri stanno facendo l’amore, esplorando la propria sessualità adolescente. Improvvisamente, su di loro incombono «due uomini bianchi, uno con una lampada a spirito, l’altro con una torcia». Quando la luce della torcia si abbatte su di loro, i ragazzi si sentono sporchi e umiliati: lo sguardo egemonico riduce il loro gioco a pura bestialità e gli impedisce sia di amarsi fra loro, sia di amare se stessi.
PARTE DELLA RESPONSABILITÀ che Toni Morrison si assume, come artista e come intellettuale pubblica, saggista, studiosa, è quella di rovesciare questo sguardo. Perciò parlare degli afroamericani nella letteratura americana non significa solo proclamare la presenza degli scrittori neri ma soprattutto, come in Playing in the Dark (Giochi nel buio), mettere a nudo un’assenza, interrogarsi sulla pesante rimozione della presenza nera dal canone letterario riconosciuto. Come si fa, quanta fatica costa, costruire un’immagine letteraria dell’America dove gli afroamericani non esistono, o sono ridotti a banali stereotipi e margini? Che violenza hanno dovuto esercitare – su se stessi! – gli scrittori canonici per riuscirci? Ancora una volta, quando parliamo (o non parliamo) di afroamericani parliamo di tutti: la rimozione della presenza nera distorce e falsifica un’intera cultura. E forse non solo negli Stati Uniti.
Chiuderei con un ricordo. Parigi, 1993, è la prima giornata internazionale di studio su Toni Morrison. Ha appena avuto il Nobel, ma l’incontro era programmato già da prima. I nostri media sono sorpresi e sconcertati (il Nobel a una sconosciuta? Mai sentita nominare… avrà vinto per correttezza politica perché è nera e donna… avrà vinto perché lo impone l’imperialismo americano…) ma gli americanisti della Sorbona si erano accorti ben prima di quasi tutti noi che eravamo in presenza di un classico (a nearness to tremendousness, mi viene da dire, con le parole di Emily Dickinson: la vicinanza, nella persona e nell’opera, di qualcosa di più grande, più vasto, più profondo, più potente. Più umano). Nel suo intervento in quel seminario parigino, una studiosa greca, Stephanie Demetrakopoulos, raccontò: «Stavo leggendo Beloved insieme con un gruppo di donne della Tracia rurale. A un certo punto, una di loro mi interrompe gridando: “Quel libro ha rubato la mia vita. Sono io che ho ucciso mia figlia durante la guerra civile, per evitare che cadesse nelle mani dei fascisti. Quella storia è la mia”». Ancora una volta, Beloved, she’s mine.
[Alessandro Portelli 07/06/2019]