sabato 29 dicembre 2018

Ci ha lasciato Amos OZ


Non si può scrivere in Israele senza essere degli autori politici, per etimologia, né si può essere scrittori in Israele senza sentire la politica nel senso primordiale, fondativo, di un termine che abbraccia sia una radice storica sia, nello stesso tempo, una coazione ormai così protratta e dolorosa da somigliare a un destino.
Amos Oz, pseudonimo dell’ebreo di origini ashkenazite Amos Klausner (nato a Gerusalemme nel 1939 e mancato ieri nella sua città), è stato scrittore politico nel senso pieno per un decorso familiare e poi per una scelta che lo ha reso testimone di un mondo lacerato, presto diviso in due, dentro e fuori di sé, dalla tragedia del popolo palestinese la cui vicenda replicava e dilatava immensamente ai suoi occhi, nei termini della esclusione e di una crudele persecuzione, gli incubi di una vita domestica letteralmente esplosa dopo il suicidio di sua madre e il tenace sanguinoso conflitto che subito lo divise da suo padre, un intellettuale dell’estrema destra nazionalista.
OZ È UNO PSEUDONIMO che significa «forza» e il termine dice molto di questo giovane adottato la cui vera famiglia diviene il kibbutz di Hulda, diretta filiazione del Partito laburista cui il futuro scrittore aderisce appena quindicenne. Politica è dunque per lui non solo e non tanto una esigenza di engagement quanto un fervore collettivo, un progetto civile di edificazione dal basso e di riscatto dalla persecuzione che rende fattiva, condivisa e alla fine si direbbe «naturale» l’utopia del socialismo.
Oz dirà più volte, specie nel romanzo autobiografico che lo ha universalmente consacrato, Una storia di amore e di tenebra (2002), di essere negato al lavoro manuale ma di avere appreso nel kibbutz le nozioni fondamentali dell’essere al mondo e, prima ancora, dell’essere con gli altri nel mondo. Anche quando se ne andrà dal kibbutz, non prima dei pieni anni ottanta, al crepuscolo del socialismo israeliano e in un drammatico passaggio di fase che vede il paese stravolto dalla aggressività sciovinista delle destre ascese al potere, ne parlerà con nostalgia nei termini di un sedimento profondo e di una definitiva immunizzazione.
Qui va detto che Amos Oz, benché educato da bambino in una scuola religiosa (dove ebbe insegnante una poetessa celeberrima in Israele, Zelda) non sarà mai un credente ma un laico refrattario al credo dei padri come alle religioni secolarizzate che nel Novecento a lungo sono state le ideologie politiche. Egli fu semplicemente un socialista democratico ma nondimeno un radicale come può esserlo chi crede in una elementare, inscalfibile, eguaglianza tra gli esseri umani.
QUANTO A QUESTO, fra le decine di saggi e romanzi che costellano la sua longeva e ricchissima bibliografia (da In terra di Israele a Contro il fanatismo del 2004, da, circa la narrativa, Michael mio a Il monte del cattivo consiglio, del ’76) spicca alla maniera di un baricentro e di un retrospettivo romanzo di formazione Una pace perfetta concepito nel 1970, redatto fra il ’76 e l’’81 e pubblicato in patria solo nel 1982 (poi in Italia da Feltrinelli nel 2009).
L’opera risale appunto alla prima maturità di Oz, perciò agli anni immediatamente successivi alla guerra dei Sei Giorni, e la scrive il kibbutzim poco più che trentenne ma già anziano militante laburista in fuga dalla sua cupa vicenda familiare. Una pace perfetta anticipa la materia autobiografica di Una storia di amore e di tenebra e appare se possibile un racconto ancora più compiuto, nel senso della compattezza e di una ispirazione che non scende dal suo apice nonostante la struttura comporti continui cambi della prospettiva e sbalzi nell’assemblaggio linguistico-stilistico.
PROTAGONISTI non sono individui singoli ma ancora una volta la comunità, il kibbutz, la cui dinamica si estende dal Bildungsroman vero e proprio a un romanzo di formazione collettivo, mentre il contrasto fra ideale e reale, tipico di ogni romanzo, si traduce nella lotta fra la generazione dei pionieri (la stessa di Ben Gurion e Golda Meir) e quella dei figli irrequieti e perplessi ovvero fra i vecchi ebrei immigrati nella Palestina del Mandamento inglese e i giovani cittadini israeliani che ormai portano con orgoglio la divisa di Tzahal.
Il clima da catastrofe incombente, un inverno rigido e eternamente piovoso schermano la matrice solare e originaria del kibbutz, il suo ideale laico e pauperista. Tale, e una volta per sempre, è comunque l’universo di Oz, uno spazio di radure strappate al deserto in cui convivono operai e contadini, dove si utilizzano macchine rudimentali ma non mancano una biblioteca e un quintetto musicale, mentre non vi esistono né una sinagoga né un rabbino, nonostante tutti sappiano citare a memoria la Bibbia.
LE FIGURE CHE EMERGONO dal coro testimoniano di una nuda umanità ma rigettano qualsiasi credo identitario: lo stesso ricordo della Shoah è una terribile ipoteca che rimane per costoro sullo sfondo, è il finale apocalittico di una vicenda chiusa non l’innesco di una storia paradossalmente trionfale quale invece sarà per le classi dirigenti successive alla guerra dei Sei Giorni, come rilevano, con sgomento e d’accordo con Oz, i nuovi storici israeliani, da Idith Zertal a Tom Segev, l’autore di Il settimo milione.
IN TUTTA LA SUA OPERA, l’autore accompagna il ricordo della epopea del kibbutz nei modi di una severa elegia dove si affacciano di volta in volta i miti, anonimi, volti del sogno comunitario. Oz, scrittore la cui pagina allude alla cadenza della riflessione, li osserva e dà loro la parola quasi con sgomento, come scrivesse da un tempo irrimediabilmente postumo rispetto a un presente viceversa armato fino ai denti dove la violenza è acclamata, la protervia giustificata nel senso comune con stoltezza temeraria. Diversamente da alcuni suoi pari (per esempio David Grossman e Abraham Yehoshua, che volentieri ricorrono nei loro romanzi al mito e persino al sostrato folclorico di Israele), Oz guarda da sempre nella sua narrativa alla dinamica degli esseri più semplici, a individui chiusi e talora imprigionati nel ciclo di vivere, lavorare e morire.
ELENA LOEWENTHAL, traduttrice elettiva di Amos Oz, fedelissima alla polifonia delle sue partiture originali, di lui ha parlato (in Scrivere di sé. Identità ebraiche allo specchio, Einaudi 2007), come di «un incrocio inestricabile di esperienza personale e collettiva» o meglio ancora di una «immedesimazione fra i destini individuali e destino collettivo che tracciò in quegli anni la nascita della coscienza nazionale».
Oggi è molto triste rammentare che una simile epopea è da decenni cancellata, in Israele: i politici di estrema destra e i rabbini bigotti cui sono delegati il governo e la manutenzione dell’identità spirituale del paese ritengono ovviamente che la storia del kibbutz sia il prodotto di un’epoca nefasta, morta e sepolta con i suoi ideali di uguaglianza fra gli esseri umani.
[Massimo Raffaeli 29/12/2018]

martedì 11 dicembre 2018

Amnesty denuncia la violazione dei diritti umani di rom e migranti mentre prosegue la vendita di armi a Paesi in guerra

Da giorno del suo insediamento il governo Conte «si è subito distinto per una gestione repressiva del fenomeno migratorio. Le autorità hanno ostacolato e continuano a ostacolare lo sbarco in Italia di centinaia di persone salvate in mare infliggendo ulteriori sofferenze e minando il funzionamento complessivo del sistema di ricerca e salvataggio».
Nel giorno in cui si celebrano i 70 anni della Dichiarazione universale dei diritti umani, il giudizio che Amnesty international esprime su governo giallo verde non potrebbe essere più netto. L’organizzazione non esita infatti a bollare come «repressive» le politiche esse in atto contro i migranti sottolineando come i diritti dei richiedenti asilo siano messi in forse dal decreto sicurezza voluto da Matteo Salvini. Che risponde subito alle accuse che gli rivolge Amnesty: «Ho la coscienza a posto. Il decreto sicurezza erode i diritti dei delinquenti e non dei richiedenti asilo», replica il ministro degli Interni. E con lui si schiera anche l’altro vicepremier, Luigi Di Maio: «In Francia ho visto minorenni fatti inginocchiare dalla polizia. Se queste cose le avesse fatte il governo italiano sarebbe arrivata l’Onu con i caschi blu».
Battute, che non bastano però a sminuire la gravità della accuse lanciate da Amnesty. L’occasione è la presentazione del rapporto «la situazione dei diritti umani nel mondo. Il 2018 e le prospettive per il 2019» nel quale si traccia un quadro preoccupante del nostro Paese per il crescente clima di diffidenza e razzismo nei confronti degli stranieri, Un clima, sottolinea l’organizzazione, alimentato anche dal linguaggio utilizzato nella perenne campagna elettorale italiana da alcuni esponenti politici per veicolare sentimenti populisti e identitari. Un modo di parlare che «incita all’odio e alla discriminazione e che sta alimentando un clima di crescente intolleranza, razzismo e xenofobia nei confronti delle minoranze e di rifugiati e migranti». E la scelta dell’Italia come di altri Paesi di non aderire al Global compact sull’immigrazione siglato ieri a Marrakech lascia «costernati», scrive Amnesty.
Particolare attenzione viene inoltre riservata alla politica degli sgomberi messi in atto da nuovo governo e che colpiscono in particolare rom e migranti senza offrire in cambio nessuna sistemazione alternativa. Una politica che per l’organizzazione rischia nel 2019 di far aumentare il numero delle persone e delle famiglie senza un tetto mentre a Roma e in altre città migliaia di rom continuano a vivere segregati in campi senza adeguate sistemazioni abitative.
Ma ne mirino di Amnesty non ci sono solo le politiche sull’immigrazione, mentre in Italia si discrimina, prosegue la vendita di armi a paesi in guerra come Arabia saudita e Emirati arabi, attivi nel conflitto in Yemen. Queste esportazioni, denuncia Amnesty, violano la legge 185/90 e il trattato internazionale sul commercio delle armi ratificato dall’Italia nel 2014, mentre restano inascoltati gli appelli che l’organizzazione ha lanciato al nostro governo perché si adoperi per un cessate il fuoco in Yemen e per imporre un embargo sulle armi.
«L’assenza di Conte Marrakech indica che, al di là delle belle parole, la politica del governo è dettata da valori e azioni tipiche delle destre nazionaliste», è stato il commento del capogruppo dem Graziano Delrio, mentre per Nicola Fratoianni (Sinistra italiana) quelle di Amnesty sono «parole pesanti sulla credibilità di un governo».
[Marina Della Croce 11/12/2018]

Allarme «Dudu» 70 anni dopo

 la 25enne irachena Nadia Murad e il medico congolese Denis Mukwege

Ieri, 10 dicembre, la Dichiarazione universale dei diritti umani (Dudu) ha compiuto 70 anni. Un anniversario particolarmente significativo, dato che il suo impianto etico e universalistico viene rinnegato da parte delle forze sovraniste e xenofobe di ogni parte del mondo. È, infatti, la centralità stessa del binomio Dignità e Diritti ad essere rimesso in discussione, con il conseguente collasso di tutti gli articoli successivi dato che, come sancisce l’Articolo 1, vera epitome della Dichiarazione:
«Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza»
Per capire, allora, l’importanza fondativa del documento adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni unite il 10 dicembre 1948 a Parigi, dobbiamo ripercorrere brevemente la storia dei valori che l’hanno ispirato e delle diverse temperie politiche in cui essi si sono evoluti sino a condensarsi in questo caposaldo dei Diritti umani.
 Il cosiddetto Cilindro di Ciro, VI sec. a. C.

La Dichiarazione, infatti, è la risultante di una elaborazione millenaria, che parte forse dai principi di eguaglianza che possiamo già ritrovare nel Codice del re babilonese Hammurabi (1692 a.C. al 1750 a.C.), o nel proclama sul «diritto alla felicità» del faraone egizio Amenenhet del 1996 a.C.. Il primo documento cui gli storici dei Diritti Umani fanno esplicito riferimento è però quello promulgato da Ciro il Grande quando, nel 539 a.C., conquistò Babilonia. In questa occasione Ciro liberò gli schiavi, dichiarò che ognuno aveva il diritto di scegliere la propria religione e stabilì l’uguaglianza tra le razze. Queste affermazioni, che avevano forza di legge, furono incise, in lingua accadica, su un cilindro di argilla cotta. Conosciuto oggi come Cilindro di Ciro, è tradotto nelle sei lingue ufficiali delle Nazioni unite e le sue clausole equivalgono di fatto ai primi quattro articoli della «Dudu». Da quel momento, l’idea dei Diritti umani si diffonde verso l’India, la Grecia e infine a Roma, dove influenza la nascita del concetto di «legge naturale».
Ma è nel lungo percorso di avvicinamento verso lo Stato moderno che troviamo le radici più prossime della Dichiarazione: comincia con la Magna Charta Libertatum del 1215, documento emanato dal re d’Inghilterra Giovanni Senza Terra, che contiene un elenco di diritti come quello alla proprietà privata, alla libertà, a non essere condannati senza motivo e giudicati da un organo legittimo. Tuttavia questi diritti non venivano riconosciuti a tutti, ma solo alle classi sociali più importanti: alti prelati e nobili. Sempre in Inghilterra, ma siamo già nel 1679, viene emanato un altro documento fondamentale nell’affermazione dei Diritti umani: l’Habeas corpus Act, in cui si stabiliva che nessuno potesse essere arrestato in modo arbitrario, senza prove concrete di colpevolezza. Sulla scia di questo documento, nel 1689, viene approvato anche il Bill of Rights (Carta dei diritti) in cui si affermano, in particolare, la libertà di religione, di parola e di stampa.
È però nel corso del XVIII secolo che avviene quel rovesciamento radicale di prospettiva caratteristico della formazione dello Stato moderno nel quale, seguendo un cammino in cui la concezione individualistica della società procede progressivamente dal riconoscimento dei diritti del cittadino di un singolo stato al riconoscimento dei diritti del cittadino del mondo, si apre finalmente l’orizzonte all’universalità dei Diritti umani. Di questa evoluzione universalistica fanno certamente parte, sia la nascita dell’Illuminismo per quanto concerne la sua legittimazione etico filosofica, sia le vicende geopolitiche che includono le relazioni tra l’Inghilterra e le sue colonie, in particolare i nascenti Stati uniti d’America, e la Rivoluzione francese.
Nel corso del 1700 si svilupparono, infatti, in America e in Francia, movimenti di pensiero e politici che sfociarono nell’approvazione di due documenti importanti per la storia dell’evoluzione dei Diritti umani: la Dichiarazione di indipendenza delle colonie americane e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino in Francia.
Alla Dichiarazione di indipendenza era allegata anche una Dichiarazione dei diritti dell’uomo, che rivendicava in particolare quelli alla vita e alla libertà, nonché alla libertà di parola, di stampa, di religione e di riunione. Anche in Francia si sviluppò un analogo movimento che sfociò nella Rivoluzione francese nel 1789, dopo la quale viene redatta la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, sancendo così Diritti fondamentali come l’uguaglianza, la libertà di stampa, pensiero e religione, la presunzione di innocenza e il diritto alla proprietà privata. Per completezza storica va anche evidenziato il ruolo culturale e di incubatore dei nuovi assetti sociali e politici, nonché valoriali, che ebbe in quel tempo, sia in America sia in Francia, la nascita della Libera Muratoria Universale, fondata nel 1717 in Inghilterra ed ispirata dal trinomio Libertà, Fratellanza Eguaglianza. Il fatto che il primo presidente Usa, George Washington, così come molti dei firmatari della Dichiarazione d’indipendenza, fossero Liberi Muratori, non è certamente casuale.
Queste sono dunque le basi che, nel XX secolo, hanno poi portato ai Quattordici punti redatti dal presidente Woodrow Wilson nel 1918 e ai pilastri delle Quattro libertà enunciati da Franklin Delano Roosevelt nella Carta atlantica del 1941 e, finalmente, alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948.
Ad essa è poi seguita la Convenzione Internazionale sui Diritti economici, sociali e culturali e quella sui Diritti civili e politici, entrambe adottate all’unanimità nel 1966. Altro tassello importante è la più recente Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia del 1989.
La Dudu ha costituito anche la base per la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, confluita poi nel 2004 nella Costituzione europea, mai entrata in vigore per via della mancata ratifica da parte di alcuni Stati membri come Francia e Paesi bassi.
Questa mancanza è forse alla radice di quella crisi di identità continentale e di debolezza politica che oggi scontiamo proprio con l’attacco delle tendenze sovraniste e xenofobe all’impianto europeo. E dunque anche la Dichiarazione in ambito comunitario, che costituisce la fonte di ispirazione per la Carta dei diritti fondamentali della Ue, sembra essere un bersaglio per le formazioni sovraniste europee che tendono a disconoscerne il pieno valore legale, vincolante per tutti i Paesi aderenti.
[Raffaele K. Salinari]

martedì 4 dicembre 2018

Liberare le migrazioni


Pensare la migrazione torna a essere un compito politico imprescindibile nel nostro tempo. Lo impongono da una parte i nazionalismi risorgenti in molte parti del mondo, manifestazioni estreme – e tuttavia almeno provvisoriamente efficaci – di una politica dell’identità organizzata attorno a confini che si vorrebbero saldi e impenetrabili. Ce lo chiedono tuttavia anche le pratiche di donne e uomini in movimento, che continuano a sfidare quei confini, sempre più spesso in forme collettive e organizzate: è accaduto attraverso la «rotta balcanica» in Europa nell’estate del 2015, accade in questi giorni in Messico.
TRA I MOLTI INTERVENTI a proposito delle cosiddette «carovane dei migranti» centroamericani che si dirigono verso il confine con gli Stati Uniti, ne segnalo due: Óscar Martínez, autore di uno straordinario reportage sulla migrazione di transito in Messico (La bestia, Fazi, 2014), ha sottolineato in un articolo per l’edizione in spagnolo del New York Times come la scelta di dare visibilità al carattere di massa della migrazione rappresenti un modo adeguato per rendere sicura la rotta, evitando gli ostacoli spesso letali di cui è usualmente disseminata (per via dell’azione dei cartelli del narco-traffico, dei corpi di polizia e di gruppi paramilitari). Amarela Varela, ricercatrice messicana che da molti anni lavora su questi temi, scrivendo per eldiario.es si è spinta oltre, parlando di un vero e proprio «movimento sociale in cammino per una vita che valga la pena di essere vissuta».
Si potrebbe naturalmente discutere a lungo di questo movimento sociale, degli effetti che produce nei Paesi di origine (in questo caso prevalentemente, anche se non soltanto, l’Honduras), di transito (il Messico) e di agognata destinazione (gli Stati Uniti). Varrebbe senz’altro la pena di farlo, anche in riferimento ai movimenti migratori che continuano a indirizzarsi verso l’Europa. Quel che intanto va comunque fissato è il carattere di autonomia che sempre più marcatamente caratterizza la migrazione contemporanea: non certo nel senso che si debba ridimensionare il rilievo delle «cause», delle determinazioni strutturali delle migrazioni, ma piuttosto per evidenziare da una parte la crescente consapevolezza e ostinazione delle donne e degli uomini che ne sono protagonisti, dall’altra il fatto che i loro movimenti si pongono costitutivamente in eccesso rispetto ai regimi dell’asilo e alle fantasie governamentali di una migrazione «ordinata e gestita» sulla base di sempre più sofisticati parametri economici e demografici. Pensare la migrazione, oggi, significa in primo luogo pensare questo eccesso e questa autonomia, indagarne – senza alcuna inclinazione apologetica – le forme di manifestazione e ragionare realisticamente sulle sfide che pongono a un’azione e a una teoria politica che rifiutino di restare confinate nel perimetro della nazione.
Per chi voglia assumersi questo compito (e sono per fortuna molte e molti a farlo quotidianamente, in Italia come altrove), il sociologo algerino Abdelmalek Sayad continua a essere una fonte essenziale di ispirazione. Il libro di Gennaro Avallone (Liberare le migrazioni. Lo sguardo eretico di A. Sayad, ombre corte, pp. 117, euro 10), che ormai da diversi anni lavora su questi temi, ne è un’eccellente dimostrazione. Vissuto a lungo in Francia, Sayad è autore di studi classici sulle migrazioni, tra cui va ricordato almeno La doppia assenza (pubblicato in italiano da Cortina nel 2002). Concentrandosi sul caso «esemplare» della migrazione algerina in Francia, quel libro intraprendeva effettivamente un tentativo di «liberare le migrazioni», in primo luogo sotto il profilo che si può definire epistemico – ovvero sottoponendo a una critica rigorosa l’apparato concettuale e il linguaggio che informano la costruzione dell’oggetto «migrazione» tanto nel discorso pubblico (nella «doxa») quanto nella ricerca scientifica.
«PENSARE L’IMMIGRAZIONE», ha scritto Sayad in uno dei suoi passi più noti, «significa pensare lo Stato ed è lo Stato che pensa se stesso pensando l’immigrazione». In un bel libro di qualche anno fa (Migranti e Stato, ombre corte, 2016), Fabio Raimondi ha mostrato come queste parole invitino ad assumere la migrazione come punto di vista per articolare una critica rigorosa e radicale dello Stato moderno.
Avallone svolge a sua volta questa indicazione, ponendo in particolare l’accento sui modi con cui il «pensiero di Stato» comprime l’autonomia dei migranti all’interno dei confini nazionali, che si riflettono tra l’altro nella grande partizione tra «emigrazione» e «immigrazione». Costruiti secondo i codici della «società di accoglienza» o della «società di provenienza», i migranti sono catturati in una relazione «in cui occupano la posizione di oggetto, determinati da altri». Riscattare l’autonomia delle migrazioni significa conseguentemente esporre in piena luce la soggettività dei migranti, assumerla non solo come criterio di orientamento della ricerca sulle migrazioni ma anche come punto di vista sull’insieme degli ordini al cui interno quella soggettività si esprime, subendone le coazioni ma anche agendo come forza di trasformazione. In questo senso, per Sayad, la migrazione si configura come un vero «fatto sociale totale».
L’AUTORE DÀ CONTO efficacemente della portata letteralmente sovversiva della proposta di Sayad, sia rispetto alle teorie della migrazione sia rispetto alle potenzialità politiche dell’azione dei migranti una volta che quest’ultima venga liberata dalla tirannia dell’«ordine nazionale» e dalle determinazioni coloniali che continuano a segnare quell’ordine sotto il profilo dei rapporti di potere a livello globale. Lo «sguardo dell’autonomia» che emerge da questa lettura di Sayad è indubbiamente un contributo prezioso sotto il profilo «epistemico»: sotto il profilo politico permette di cogliere e valorizzare i momenti di autonomia che, come dicevamo all’inizio, segnano i movimenti migratori contemporanei. Si tratterà di indagare questi movimenti, per molti aspetti diversi dalla migrazione algerina in Francia al centro del lavoro di Sayad, alla ricerca delle condizioni che consentano alla loro autonomia di incontrare altre «autonomie», altri movimenti con cui costruire coalizioni capaci di riqualificare la libertà e l’uguaglianza al di là della miseria dell’«ordine nazionale».
[Sandro Mezzadra 4/12/2018]