martedì 12 marzo 2019

La mia guerra segreta, Philip O’Ceallaigh

L’Irlanda è terra di raccontatori, di contastorie. La cultura irlandese per tanti anni è andata a braccetto con l’oralità al punto che gli séanchai, ossia gli storyteller della tradizione gaelica, erano tenuti in gran considerazione nell’ordinamento sociale. Un popolo di parlatori che ha visto tra suoi migliori letterati grandi conversatori, come Shaw e Wilde, e poi Behan. E non a caso, la tradizione irlandese della short story, del racconto breve, è da sempre in grandissimo fulgore.
Esce ora per i tipi di Racconti edizioni, La mia guerra segreta (pp. 320, euro 17,00), ossia la sua seconda raccolta di racconti dal titolo originale The Pleasant Lights of Day. Un titolo ironico forse, perché di leggerezza si parla, ma non troppo, soprattutto in alcune novelle.
CON LA PRIMA RACCOLTA, Notes from a Turkish Whorehouse, si era affermato come voce vitale e originale sebbene non molto nota della nuova narrative irlandese. Con il secondo libro, Philip O’Ceallaigh, scrittore irlandese trapiantato in Romania, a Bucarest, ci restituisce la sua verve di narratore in grado di muoversi comodamente tra diverse tradizioni. Colpiscono l’ironia e il sarcasmo con cui affronta uno degli scrittori ahimè più popolari della contemporaneità, il brasiliano Coelho, ma anche le sue storie familiari dislocate in altrovi inaspettati, come Il Cairo, ad esempio. Qui incontriamo spunti di ispirazione non orientalista tutt’altro che trita, e certamente innovativa nel panorama irlandese. Quello che più si nota è infatti una familiarità con la creazione di un linguaggio al contempo intimo e non sentimentale, preciso e netto ma sempre ironico, come avviene nel racconto solo apparentemente funereo «Andarsene», pieno di considerazioni esistenziali che sanno di distacco e assieme di segreta passione.
È un mondo intriso di sensualità quello che ci consegna O’Ceallaigh, sin dalla primissima novella, in cui una storia di sesso si mescola a trame da fiction, e quello che abbiamo nel finale è il sintomo e simbolo di quel che deve essere un’opera aperta, mai conclusa, mai definibile, poiché rivissuta nelle letture che si susseguono, e che divengono mentali «ricreazioni».
IL TEMA DELLA SESSUALITÀ si mescola a riflessioni che hanno ogni tanto del religioso, se non a tratti del mistico, ma sempre con l’occhio alla terrestrità e alla caducità beffarda dell’umano. Questo avviene in «Tombstone Blues» e nel «Cantico dei cantici» ad esempio. Ma è senza dubbio «In un altro paese», la novella che più convoglia il senso dell’intera collezione e forse anche della dislocazione culturale e spaziale che l’autore ha scelto per sé allontanandosi dalla sua terra per accedere appunto ad altri lidi: «Ho attraversato il confine in un altro paese, stavolta sul lato orientale del mar Nero».
È un oriente, quello presentato, che non ha nulla di melenso, e tutto di misterioso ma non misterico. Un altrove cercato, anche in letteratura, non per svago, ma per necessità, per rivivere una nuova vita che non si conclude mai con la sua fine, perché della fine poco ci è dato sapere: «Avevo un posto dove vivere e pagavo le mie bollette in tempo. Avevo ripitturato i muri e comprato cose. Delle volte mi si otturava il lavandino e allora lo sturavo. Andavo al mercato e compravo da mangiare, poi lo riportavo a casa e lo mettevo in frigo. Nel fine settimana avevo qualcuno con cui bere. Dopo qualche mese ho incontrato una ragazza. Volevamo es sere felici assieme e per un po’ ci siamo riusciti».
[Enrico Terrinoni 12/03/2019]

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