venerdì 23 novembre 2018

prossimo incontro



Carissim*, 
è ora di trovarci per riflettere su PASTORALE AMERICANA e il contributo complessivo di Philip Roth alla letteratura -e per piangere la sua perdita. 
L'appuntamento è per mercoledì 28 novembre a casa di Francesca.
Siete pregati di confermare la vostra presenza per ragioni logistico-organizzative.
A presto
Silvia

domenica 11 novembre 2018

Nemici Una storia d’amore, Isaac Bashevis Singe

Quando nel 1978 Isaac Bashevis Singer vinse il Nobel, ci fu chi rinfacciò al grande autore yiddish di non aver mai scritto un libro sulla Shoah. Era un’accusa infondata e non solo perché l’ombra della distruzione degli ebrei d’Europa è presente, sebbene non in modo manifesto, in tutta la sua opera ma anche perché quel romanzo Singer lo aveva scritto nel 1972: Nemici Una storia d’amore, che ora Adelphi ripropone, nel quadro della ripubblicazione di tutte le opere dei fratelli Singer, in una nuova traduzione di Marina Morpurgo (pp. 257, euro18.00).
La vicenda si svolge nella New York dei primi anni Cinquanta, e il romanzo è stato a lungo ed erroneamente considerato il primo ambientato da Singer in America. In realtà, alla fine degli anni Cinquanta era uscito a puntate, in yiddish, Ombre sull’Hudson, tradotto in inglese solo alla fine degli anni Novanta, i cui personaggi, come quelli di Nemici, erano ebrei sopravvissuti al genocidio.
Singer aveva assistito alla scomparsa del mondo e della cultura in cui era nato e cresciuto al sicuro, dall’altra parte dell’Atlantico, avendo raggiunto il fratello maggiore Israel negli Stati Uniti fin dal 1935. Non poteva raccontare quella immensa sciagura come testimone diretto, raccontò invece l’esperienza dei sopravvissuti arrivati America dopo la tempesta: del resto era e si sentiva anche lui un sopravvissuto, scampato alla cancellazione del suo mondo.
Tutti i personaggi di Nemici, non solo i quattro principali, sono arrivati in America avendo alle spalle le persecuzioni, i ghetti, l’internamento nei campi di sterminio nazisti o nei gulag di una Unione Sovietica nella quale avevano creduto, poi la traversata del continente devastato, dopo la guerra, in cerca di un nuovo rifugio. Ciascuno tenta a modo proprio di curare ferite che sono restie a venire sanate, o almeno di riuscire a convivere con quelle lacerazioni.
La famiglia di Herman Broder, il protagonista, è stata sterminata, mentre lui si è salvato passando anni in un granaio, nascosto in un covone di fieno presso Yadwiga, contadina cattolica ignorante e di gran cuore, che poi per gratitudine ha sposato. Non ha mai cessato di sentirsi braccato. Trova una amante bella, intelligente e interiormente distrutta; ma poi ricompare anche la moglie, un fantasma reduce dai gulag di Stalin ormai trasfigurata, senza più nulla dell’appassionata e battagliera militante che aveva condiviso con Herman, in un altro mondo e in un’epoca lontanissima, un rapporto tanto intenso quanto infelice.
Il protagonista e le sue tre donne sono stati, tutti, travolti dal vortice tragico della storia. Ciò che hanno perso non si limita al loro mondo, quella strana «nazione ost-juden», fatta di fede, tradizioni e cultura, senza Stato né governo, che si era formata nell’esilio ebraico nell’Europa orientale. Hanno perso la fiducia in una qualsiasi sensatezza del mondo: politica, religione, filosofia, hanno svelato la loro impotenza di fronte alla furia devastatrice, e dunque sperimentano l’eredità longeva della Shoah.
L’unica che si salva, in virtù della sua bontà naturale ma anche della sua assoluta semplicità, è la contadina Yadwiga, che si converte all’ebraismo, e si fa custode delle tradizioni, l’unica in grado di dare ancora la vita: metterà al mondo un figlio.
Isaac Singer dava il meglio di sé nei racconti; in questo caso, però, la sua vocazione al romanzo filosofico e a una narrazione visionaria si adatta perfettamente a raccontare la Shoah: non nelle sue atrocità ma nei suoi effetti profondi ed esiziali, destinati a durare molto oltre il tempo dei sopravvissuti.
[Andrea Colombo 11/11/2018]

L’assassinio del commendatore, Murakami Haruki

La domanda posta dai romanzi e dai racconti di Murakami Haruki coincide con la soluzione narrativa più ricorrente: la linea di separazione tra ciò che è reale e ciò che non lo è. Il limite sottile, mai fisso, piuttosto sinuoso e sfuggente, tra due dimensioni all’apparenza inconciliabili. La protagonista di 1Q84 (traduzione di Giorgio Amitrano, Einaudi, 2011) avvertiva di trovarsi in un mondo «deviato su un altro binario», e scopriva che la seconda luna comparsa in cielo, un po’ più piccola e verdastra, era il segno non di una realtà parallela, ma di «una ramificazione» dell’anno 1984. E la vicenda, lì, trovava il suo svolgimento in questa straordinaria realtà slittante, duplice e vera in entrambi i casi, a volte speculare, sempre enigmatica. L’interrogativo sui margini della realtà, inoltre, ha senz’altro il merito di moltiplicare le possibili interpretazioni del testo, di mantenerlo aperto. A circa otto anni dall’imponente trittico 1Q84, Murakami torna a proporre un romanzo esteso che ha tra i motivi dominanti il rapporto tra reale e irreale, L’assassinio del Commendatore Libro primo. Idee che affiorano (traduzione di Antonietta Pastore, Einaudi «Supercoralli», pp. 418, € 20,00). Qui, alla scoperta di fenomeni singolari e inquietanti si arriva per gradi, in uno svolgimento che per buon tratto, salvo un sinistro Prologo presagio di evanescenze, è saldamente ancorato a ciò che è concreto e ordinario: un matrimonio che d’improvviso finisce, la difficoltà di elaborare il dolore, il bisogno di trovare una nuova abitazione, la riflessione sull’arte, l’attenzione ai dettagli visivi e alle tecniche pittoriche, il piacere erotico, il paesaggio boschivo con i suoi abitanti e le sue imprevedibili variazioni climatiche. Eppure anche in questo romanzo, appena oltre la sua metà, al manifestarsi di fenomeni inspiegabili, la domanda arriva diretta: «Ma non possiamo affermare che soltanto le cose visibili siano reali. Non crede?». Ed è presto seguita, in risposta, da una riflessione che torna al punto: «Spesso non capiamo bene dove passa il confine tra ciò che è reale e ciò che non lo è. Pensiamo che la linea di demarcazione tra ciò che esiste e ciò che non esiste sia mobile, come una frontiera che si sposta di sua volontà. A questi spostamenti dobbiamo prestare la massima attenzione. Altrimenti non capiamo più da quale parte ci troviamo». Forse, di questa linea, è figura emblematica già la posizione della casa teatro della vicenda: all’imbocco di una stretta valle, su un crinale che spezzava le condizioni meteorologiche, perché «succedeva spesso che nel giardino davanti splendesse il sole, mentre sul retro pioveva a dirotto».
Nell’Assassinio del Commendatore la riflessione e l’introspezione giocano un ruolo determinante: il romanzo, o almeno il libro che inaugura l’opera, è scritto tutto in prima persona (diversamente, ad esempio da Kafka sulla spiaggia, ove si alternavano capitoli in prima e in terza); il protagonista ricorda, a molti anni di distanza, i nove mesi in cui era caduto «in uno stato di confusione inspiegabile», e mentre racconta lascia intendere, che i fatti sono destinati a complicarsi, a farsi incerti e torbidi, che alcuni incontri, pur interessanti, non saranno fausti. Di lui non conosciamo il nome, ma solo la sua età d’allora, trentasei anni, il suo mestiere di ritrattista e la sua condizione di marito che la moglie ha deciso di lasciare. La crisi matrimoniale, di cui non aveva percepito avvisaglie, coincide con il proposito di non fare più ritratti su commissione e di tornare a dipingere solo ciò che desidera. Un ex compagno di studi in Accademia gli presta la casa del padre, Amada Tomohiko, anziano pittore, famoso e quotatissimo, ormai ridotto dalla demenza a vivere in una casa di riposo. Per una casualità scopre un quadro che Amada aveva lasciato nascosto, L’assassinio del Commendatore, una scena drammatica in cui il sangue spicca copioso sulla tonaca bianca dell’ucciso, un dipinto magnifico eppure a lungo impenetrabile agli sforzi interpretativi del protagonista che lo contempla per ore, tra turbamento e fascinazione, colpito, in primo luogo, dalla violenza del tutto estranea alla mitezza propria di tutti gli altri dipinti noti di Amada.
Anche la parabola artistica dell’anziano pittore, peraltro, ha plaghe d’ombra su cui il protagonista s’interroga: un promettente inizio come pittore in stile occidentale, un soggiorno di perfezionamento in Austria in gioventù, negli anni dell’Anschluss, un rientro frettoloso in Giappone all’inizio del 1939, e l’abbandono della pittura occidentale moderna per una conversione irrevocabile allo stile della corrente nihonga, che durante la Restaurazione Meiji aveva recuperato la pittura tradizionale giapponese, le fogge di secoli precedenti, l’importanza dei vuoti intorno alle figure e la compostezza formale.
Se questo quadro è l’innesco di eventi oscuri – una vecchia campanella che tintinna dal fondo di una stanza sepolta dietro un tempietto nel bosco, l’affiorare di un’«idea» che prende le sembianze del Commendatore in scala ridotta –, diventa però anche, per noi, un invito a riflettere sulle responsabilità storiche degli individui e delle nazioni. Sulla compromissione di ciascuno, e sulla funzione – e di nuovo responsabilità – dell’arte, tanto quel quadro enigmatico si rivela, via via, dolorosa trasfigurazione di un tentativo fallito di contrastare il nazismo.
In questo romanzo i fatti non sono numerosi, almeno nei primi capitoli, che muovono con lentezza maggiore rispetto ad altre narrazioni, pur ampie, di Murakami; l’ingresso del fantastico è progressivo e come sempre non solo perfettamente incluso nella trama ma sostanziale al suo vero intreccio; lo spessore psicologico del protagonista, che sa cogliere l’anima di chi ritrae, ben messo in luce e sfaccettato grazie ai frequenti passaggi dal tempo di cui narra a eventi che ne hanno segnato la giovinezza.
I presagi si manifestano in forme diverse: un gufo che forse è «un portafortuna sotto mentite spoglie» e invece è tutt’altro che uno scacciaguai; un facoltoso vicino dai capelli perfettamente candidi, Menshiki, il cui nome si scrive con gli ideogrammi di «sfuggire» e «colore», «come in un dipinto a china», proprietario della villa di fronte, al di là della valle, una casa bianca ed enorme che «vista da lontano sembrava una splendente nave da crociera che navigasse la notte su un mare tranquillo»; qualche frammento del passato che rivela tardivamente la sua potenza.
Nell’Assassinio del Commendatore i legami tra pittura, letteratura e musica classica, in particolare opera lirica, sono particolarmente stringenti: è da queste connessioni che il protagonista, solo o con l’aiuto di Menshiki, trae indizi. È dunque un romanzo che ha una coesione fortissima, in cui cercano senso, in risonanza tra loro, elementi diversissimi: dal racconto Un legame che dura due vite di Ueda Akinari al mozartiano Convitato di pietra, alle dissolvenze graduali già appartenute allo Stregatto in Alice, al quartetto, sospettiamo, composto da Schubert per Rosamunde. Ma l’inchiesta, di questo davvero si tratta, riguarda sia la storia sia il passato personale. Tra i passi più convincenti, infatti, sono quelli in cui si esplorano o aprono cavità sotterranee: il ricordo della sorellina appena adolescente che in fondo a un cunicolo trova tenebre così spesse «che hai l’impressione di poterle toccare con la mano» e lo scavo che porta alla luce la stanza da cui tintinna la campanella, uno strappo, pietra dopo pietra, segreto dopo segreto, che il protagonista sente avvenire dentro di sé, a scoprire quanto aveva «a lungo sepolto lontano da sguardi indiscreti».
[Cecilia Bello Minciacchi 11/11/2018]