mercoledì 6 marzo 2019

Le febbri della memoria, Gioconda Belli

«Quando si deve lasciare un posto, sono convinta che ci sia l’occasione di reinventarsi. Tuttavia, in un tempo in cui lo spostamento da un luogo a un altro è spesso una necessità e non un desiderio, per chi abbandona il proprio paese, la propria casa, rigiocare se stessi è questione più complessa». Gioconda Belli, scrittrice, giornalista e poeta i cui libri sono stati tradotti e letti a ogni latitudine. Sarà per il suo senso indomito di abitare la sua avventura terrestre, ma anche questo ultimo volume Le febbri della memoria (Feltrinelli, pp. 328, euro 18, traduzione di Francesca Pe’) si presenta in continuità con l’omaggio costante al suo paese natale, il Nicaragua.
COMPRENDERE di averlo vissuto e amato da donna conferisce al suo progetto letterario l’autenticità che è andata sempre cercando. Innamorato, selvaggio e discontinuo, il Nicaragua di Gioconda Belli è il luogo caro in cui si muove una storia di seconde possibilità. «È questo l’argomento del mio libro – ci dice raggiunta al telefono per qualche domanda. Ciò che racconto è antico, ho scavato nel passato della mia famiglia ed è emerso un intreccio di esistenze in cui ho riconosciuto di essere implicata anche io. Da ragazza sapevo di Graciela, mia nonna paterna. Era un personaggio misterioso, viveva a Matagalpa, una piccola città nel nord del Nicaragua. Si diceva che fosse la discendente di un aristocratico francese, Charles Theobald Choiseul-Praslin. La leggenda vuole che il re di Francia Luigi Filippo d’Orleans, nel 1847, lo avesse aiutato a fuggire quando sua moglie fu uccisa e lui venne accusato del suo assassinio».
Ma le febbri di cui è affetta la memoria sono presagi di creature frenetiche, che sanno il fuoco del possesso e lo sollevano fino alle nuvole, evaporato nel periplo dei continenti per poi custodirne il segno in scatole di biscotti danesi, da ritrovare dopo secoli in una vecchia soffitta.
«Di Charles, che poi diventa Georges, mi piaceva l’idea che fosse finito in Nicaragua nel periodo della febbre dell’oro in cui la gente cercava di andare in California dalla costa est degli Stati Uniti. Cercavano una strada alternativa a quella lunga che partiva da New York e attraversava lo stretto di Magellano, praticamente il confine del mondo, per poi dirigersi verso la California. Cornelius Vanderbilt inaugurò una «scorciatoia» proprio attraverso il Nicaragua, dove c’è un grande fiume e un lago – e tra il lago e l’oceano Pacifico ci sono solo 25 km. Quella rotta è stata un’importante parte della nostra storia, perché attraverso di essa giunse anche la prima invasione da parte di William Walker nel 1850».
Vegetazione lussureggiante in un clima tropicale, la scrittrice ribadisce ciò che è presente in ogni romanzo come in ogni sua dichiarazione di poetica – da La donna abitata (1988), a Sofia dei presagi (1990), Waslala (1996) e ancora Il paese sotto la pelle (2001), Nel paese delle donne (2011) e altri ancora -, ovvero che «la passione per il luogo in cui sono nata è politica ed erotica, ha a che fare con il mio corpo di donna, nella pelle che sta all’aperto sempre a contatto con l’aria, ne sono abbacinata». È qui che le esperienze di Gioconda, quelle degli anni a Managua, dell’esilio all’estero, in Messico e in Costa Rica, di opposizione a Somoza e di adesione al Fronte Sandinista, incontrano il dissenso radicale per la gestione di Daniel Ortega. Ancora una volta al centro una fedeltà totale a quel bene caro a cui vorrebbe riconoscere anche «una bellezza etica e morale, una terra in cui chi ci vive potesse avere ciò che merita, con dignità e giustizia. Non posso credere che, dopo esserci liberati di Somoza che ha governato il Nicaragua per 45 anni, ci troviamo ancora una volta nella tirannia di Ortega, ossessionato dall’idea di diventare presidente dopo aver perso le elezioni nel 1990. Ha avuto anche lui una seconda possibilità ma l’ha sprecata tornando ai suoi metodi autoritari, di cui aveva già dato prova durante la rivoluzione. Ha fatto un gran numero di accordi con persone corrotte per riprendere il potere e ci è riuscito nel 2007, rovinando la costituzione del nostro paese. A causa di tutto ciò lo scorso aprile c’è stata una grande rivolta popolare; è stata pacifica ma Ortega ha risposto con incredibile violenza, ci sono stati più di 300 morti, 700 persone sono finite in prigione, più di 30.000 hanno lasciato il paese. La situazione è terribile».
DARE VOCE ALLE DONNE, è stato per Gioconda Belli decostruire il sessismo e il privilegio anzitutto della società borghese in cui lei per prima è vissuta. La scoperta della libertà femminile è stato l’antidoto a una visione machista, quella che «per lunghi anni ha creduto di poter parlare anche a nome delle donne. Ho sempre creduto nel coraggio della sensualità, perché nei nostri confronti c’è molta malignità rivolta alla nostra sessualità, finanche ai nostri tratti, ci vuole un’appropriazione della sensualità nella gioia, senza sensi di colpa». Sono creature di straordinaria e primordiale energia quelle create dall’autrice di Una donna abitata che proprio tra quelle pagine trovano il contrappunto di una relazione tra donne inestinguibile; da dentro un albero come Ytzà, nel dialogo di una lotta dolorosa come per Lavinia, «sono entrambe delle guerriere – sottolinea Belli – che prendono parte alle lotte del proprio tempo e nel processo prendono coscienza della propria forza».
PARTIRE INVECE da una voce maschile, come quella di Charles de Le febbri della memoria, è dunque un esperimento; «non pensavo di scrivere alla prima persona maschile, ma è stato il romanzo a chiedermelo, il tono della storia mi è giunta attraverso questo mio presunto antenato e ho creduto che sarebbe stato interessante sentire me stessa nel corpo di un uomo, provare a vedere le donne dalla sua prospettiva, sia sessuata che storica. Mi interessava anche come ha saputo ribaltare se stesso, per trovare la propria umanità ha dovuto perdere il suo potere, i suoi titoli, la sua posizione, il suo senso di superiorità sociale, scoprire cosa si prova a essere uno qualsiasi. E trovo che questo processo sia affascinante. Anche chiedersi cosa diventa una persona quando viene spogliata delle sue terre, della sua lingua. In questo aspetto non ho faticato a immedesimarmi visto che anche ho vissuto sotto falso nome e in posti di cui non sapevo quasi niente. Eppure sono qui, a ricevere ancora il dono di essere letta e a poter dire che sì, la letteratura è la mia vita e sono fortunata».
Nell’estetica di una scrittura carica di corpi, maree notturne, amanti marini e sapori di cibi ormai perduti, le ferite non si rimarginano quasi mai. Però nella storia grande e tremenda c’è «un’idea per cui battersi. Così come lo è la felicità, anche l’utopia, non so come la si raggiunga, per me è lo stadio definitivo e più elevato della storia umana. Arrivarci non è la cosa importante, è la lotta che si intraprende a contare».
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SCHEDA: Da sabato a «Dedica»

Dal 9 al 16 marzo, a Pordenone, la 25a edizione di «Dedica» che quest’anno ospita Gioconda Belli. Saranno dodici gli appuntamenti che faranno apprezzare al pubblico il suo universo poetico: impegno politico, suggestioni precolombiane e l’attualità di un continente
[Alessandra Pigliaru 06/03/2019]

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