mercoledì 31 ottobre 2018

«Ero straniero – L’umanità che fa bene»

Esattamente un anno fa, il 27 ottobre 2017, abbiamo consegnato al Parlamento le 90.000 firme raccolte con la campagna «Ero straniero – L’umanità che fa bene» su una proposta di legge d’iniziativa popolare per cambiare le politiche sull’immigrazione e superare la legge Bossi-Fini. Una campagna che ha unito centinaia di realtà diverse in tutta Italia, laiche e religiose e dato voce a quella parte del Paese che rifiuta la politica dei muri e crede che il fenomeno migratorio vada governato tenendo insieme legalità, diritti e coesione sociale.
A un anno di distanza, come in altre parti d’Europa, anche in Italia trovano consenso atteggiamenti di chiusura nei confronti dei migranti che legittimano politiche sempre più restrittive. In questo contesto si inserisce la proposta del governo per un «decreto sicurezza», in questi giorni al Senato per la conversione in legge.
Come realtà impegnate nel sociale e nella tutela dei diritti, siamo contrari a una gestione delle migrazioni con logiche meramente securitarie e di ordine pubblico. In particolare, ci preoccupano le proposte di abolizione del permesso di soggiorno per motivi umanitari e il restringimento del sistema Sprar in favore dei grandi centri di accoglienza.
Per garantire sicurezza e inclusione e allo stesso tempo scongiurare forme di cattiva gestione del sistema di accoglienza nel suo complesso, consideriamo indispensabile rafforzare, e non ridurre, l’accoglienza diffusa in realtà di piccole dimensioni. Le grandi strutture collettive – luoghi di approdo, attesa, accoglienza o trattenimento – si sono dimostrate inefficaci e costose. Per questo riteniamo inaccettabile che il «decreto sicurezza» proponga di estendere ulteriormente il trattenimento delle persone nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr).
La proposta di legge di iniziativa popolare che abbiamo depositato un anno fa alla Camera dei deputati va nella direzione opposta al decreto, provando ad affrontare il fenomeno migratorio in tutta la sua complessità e si propone di superare la legge Bossi-Fini alla luce dei limiti sperimentati in questi decenni e del mutamento dei flussi nel contesto geo-politico degli anni più recenti.
Chiediamo innanzitutto forme di regolarizzazione su base individuale degli stranieri già radicati nel territorio, che abbiano legami familiari o la disponibilità di un lavoro, e misure per l’inclusione sociale e lavorativa di richiedenti asilo e rifugiati, puntando sulle politiche attive. Proponiamo canali diversificati di ingresso per lavoro, a partire dall’introduzione di un permesso di soggiorno temporaneo per ricerca lavoro per facilitare l’incontro con i datori di lavoro italiani. E ancora proponiamo di abolire il reato di clandestinità, che è ingiusto, inutile e controproducente, e di garantire l’effettiva partecipazione dei cittadini stranieri alla vita democratica dei territori col voto amministrativo.
Vogliamo rilanciare questi contenuti e offrirli alla riflessione del Parlamento, impegnato nel dibattito sul decreto «sicurezza», in modo che trovino voce le ragioni dei tanti che, come noi, credono che questo fenomeno debba essere governato attraverso una visione di prospettiva dei processi migratori e dei territori che ne sono interessati, difendendo l'idea di una società aperta, solidale e plurale, che sappia rispondere ai bisogni e alle paure di tutta la cittadinanza, senza cedere alla ferocia dei linguaggi e alloscontro sociale.
***Per il Comitato Ero straniero:
Radicali italiani, Casa della carità di Milano, A Buon Diritto, Arci, Asgi, Centro Astalli, Acli, Cild, Cnca.[31/10/2018]

Istruzioni per diventare fascisti, Michela Murgia

Se Michela Murgia fosse un uomo, si direbbe che è il più sicuro, il più straordinariamente proficuo erede di Pier Paolo Pasolini. Un autore ircocervo perché al contempo fine letterato e fenomeno mediatico, un localista estremo ed estremista internazionalista, un gramsciano capace di vedere il colonialismo sulla soglia più prossima, cattolico e radicale in eguale eretica misura e galvanizzato dalla perturbante libidine della pedagogia.
INVECE, per fortuna, questa premiata narratrice d’incanto, mariologa pop, attrice teatrale, impavida stroncatrice virale e amichevole voce di podcast, questa politica militante ed ex-amministratrice di centrali termoelettriche seguìta da oltre duecentomila persone sui social è una donna, ed è pure simpatica. È forse anche per questo che piace a tanta gente che si crede di sinistra, quando al contrario la dovrebbero (la dovremmo) temere. Oltre al gusto dello sposalizio tra lirica e osceno, oltre alla vocazione popolare che solo i più raffinati e i più anomali nutrono sul serio, di Pasolini Michela Murgia ha infatti la capacità di far vergognare chi si sente al sicuro, chi riposa sui partiti presi, chi si suppone dalla sua stessa parte. Di chiamare noialtri per nome insomma: noi che leggiamo il manifesto e le vignette di Biani e i libri Einaudi, e di somministrare con perizia chirurgica la pulce più infinitesimale (e perciò più pericolosa) nei nostri orecchi di Mida. Del suo nuovo libro, fino a ieri, erano usciti solo il titolo, Istruzioni per diventare fascisti (pp. 112, euro 12), e una copertina con Forrest Gump.
Tanto è bastato perché, tra commenti e reazioni, si dispiegassero due opposte specie di orizzonti d’attesa, entrambi biforcuti e assolutamente fuori bersaglio. Di qua gli stufi, bulicanti come caffettiere, che bandivano l’autrice nelle rispettive opposte inconciliabili identità (Murgia zecca, al limite piddina vs. Murgia schieratella, semmai grillina). Di là, i saputi aspiranti complici – i «noialtri» di cui sopra – che intendevano invece tenersela stretta, e specchiarsi magari nella salvifica sua prosa di madrina da girotondo, o al contrario strapparla all’indistinto coro delle meno taglienti voci liberali ancora in circolazione (e allora «Murgia una di noi» vs. «ma che ne sapete voi di Murgia»). Di qua «Murgia lasciaci in pace», di là «Murgia salvaci tu». Spiace a questo punto rivelare a tutti – troll di Twitter e abbonati all’Espresso, topi di biblioteca e leoni da tastiera – che, leggendo queste otto Istruzioni come si ascoltano altrettante brillanti tracce da album concettuale, non rimane nessuno da congratulare o da mettere alla berlina, non resta alcun campo su cui poggiare comodamente i piedi o di cui, tantomeno, difendere l’esclusività.
In una comunione amara come ogni medicina efficace, Murgia ci mostra che, chiunque siamo, siamo come temiamo di essere: soli. Ma che lo siamo – ecco l’unico scintillio di ottimismo, privo di qualsiasi balsamico maternalismo – insieme. Attenzione però: soltanto chi bigiava il catechismo può pensare all’eucarestia come a un «tana liberatutti»: Murgia, che ha un baccelierato in teologia, non ha mai scritto neanche un racconto breve da cui ci si salvi tanto facilmente.
INDICI, ALGORITMI e scaffali lo rubricheranno tra i saggi, ma questo libro non è davvero un saggio, sebbene sia animato dall’influente spettro di uno degli inventori del genere saggistico, Étienne de La Boétie – quell’autore del ’500 che Feltrinelli, per capirci, ristampa con in copertina la maschera di Guy Fawkes nella grafica blu e rossa della campagna di Obama. No, questo libro è piuttosto un trattato, nel senso appunto rinascimentale della parola. Come spesso accadeva nei trattati italiani del XVI secolo (i libri con cui colonizzammo l’Europa e il mondo senza avere una nazione né un esercito), se ne intravede l’anima in un emblema; in un congegno di parole e immagine stampato all’ingresso: la fraintesa copertina con Forrest Gump appunto, che dice: «fascista è chi il fascista fa». Più che l’intelligenza, di cui è provvisto al punto da rimpiazzare i computer della Nasa in un viaggio spaziale, a Forrest manca totalmente l’ironia, la qualità letteraria (e tragica) che dobbiamo invece avere noi per divertirci con le sue satiriche avventure. Prende il mondo dannatamente sul serio, e assurdamente il risultato di una simile ottusità è il successo.
NELLE ISTRUZIONI ha luogo il medesimo artificio narrativo, il cui oggetto, poi, è tutto nel motto pronunciato da Forrest: il fascismo non è un’idea, né un fenomeno storico o uno specifico movimento nel corrente agone politico-culturale; il fascismo è un metodo, un modo di fare, una pratica. E dunque questo trattato è un manuale di pratiche, come il Cortegiano di Castiglione o il Principe di Machiavelli. Col Principe condivide anche un rischioso potenziale di malinteso, giacché un libro di pratiche manca di morale (nel senso esopiano del termine): come ogni trattato, è uno strumento. Ma, a differenza dei suoi seri (o forse meno seri) antesignani – Forrest ci aiuta a capirlo – questo libro è uno strumento affilatosi sulle maglie ruvide dell’ironia. Ebbene sì, contiene per davvero delle istruzioni per diventare fascisti: non c’è altro. E sono istruzioni (giuro) di buon senso. Si parte, come in ogni hobbesiana anatomia, dal capo (dalla stabilità dunque, così necessaria e così quasi costitutivamente assente nel nostro ordinamento parlamentare) e si passa per l’identità, la sicurezza, la chiarezza, la forza, la memoria. La qualità più inquietante di Murgia, in tutto quel che fa, è d’altronde una prodigiosa lucidità, e qui quella sua lucidità da crooner disinvolto (ma sempre perfettamente intonato) si presta a un incantesimo retorico formidabile: più che farci desiderare gli oggetti della sua analisi ci rende consapevoli del fatto che li desideriamo già, che addirittura li esigiamo (li votiamo, fantastichiamo di votarli).
LA VERA SATIRA, in letteratura almeno, è abbastanza chiara da non poter essere davvero scambiata per nient’altro, e si trattiene instancabilmente, tuttavia, dal rivelarsi da sé: ha qualcosa da perdere, è guardinga pur non avendo pietà; non lascia quartiere alla simpatia né alla censura. Invece di sbertucciare il potere, lo prende in parola: ne svolge con diligenza le idee, sciogliendole come fossero nodi: gli impedisce di adattarsi, di contaminare ogni cosa colonizzando il senso comune, di tenere insieme tutto e il contrario di tutto (il fascismo, già nel suo simbolo eponimo, fa letteralmente questo: fascia appunto, manteca, lega). Una simile acuta ironia per niente spassosa – eppure tanto divertente: leggete gli eserghi geniali di ogni capitolo, da Eminem ai Bee Gees – sopravvive alle contingenze perché non si limita a fare il verso alla realtà (e men che meno a qualcuno di preciso nella realtà), ma ne scandisce invece i nessi, ne ricrea scientificamente le condizioni, ne sillaba i gangli. Questo libro, come le Lezioni americane di Calvino o La fattoria degli animali di Orwell, è destinato a infestare di fruttuosi dubbi le menti di generazioni di liceali: è di un’attualità incandescente, ma promette di farsi più cogente ancora nei decenni che vengono. È un classico, e vale la pena accaparrarsene una prima edizione.
[Alessandro Giammei 31/10/2018]

martedì 30 ottobre 2018

Pastorale americana, Philip Roth (pag 154)


Per la prima volta si era messa una gonna ed una camicetta, roba vistosa, a fiorami, da negozietto delle occasioni, e un paio di scarpe col tacco alto, quando con quelle scarpe attraversò traballando la moquette, gli sembrò ancora più minuta di come fosse apparsa con gli scarponi da lavoro. L’acconciatura era da aborigena come prima, ma il viso, di solito un po’ terreo, disadorno e crudele, era stato ravvivato col rossetto e dipinto con l’ombretto, e gli zigomi evidenziati  col fard. Sembrava una scolara di terza elementare che avesse saccheggiato la stanza della madre, con la differenza che i cosmetici conferivano alla sua inespressività un’aria ancora più spaventosamente psicopatica di quella che aveva quando il suo viso era privo di colore in modo disumano.
“Ho il denaro, ”disse lui, rito sulla soglia della stanza, dominandola dall’alto della sua statura e sapendo benissimo di fare lo sbaglio più grosso della sua vita. “Ho il denaro,” ripetè, e si preparò alla replica sul sudore e il sangue dei lavoratori ai quali lo aveva rubato.
“Oh, ciao. Entra,“ disse la ragazza. Vorrei farti conoscere i miei genitori. Mamma, papà, questo è Seymour. Una commedia, per la fabbrica, una commedia per l’albergo. “Accomodati, prego. Fa’ come se fossi a casa tua.”
Lui aveva i soldi nella borsa, non soltanto i cinquemila in biglietti da dieci e da venti che aveva chiesto lei, ma altri cinquemila in banconote da cinquanta. Un totale di diecimila dollari e senza sapere perché. A sua figlia a cosa sarebbe servito? Merry non avrebbe visto un centesimo. Eppure lo Svedese disse ancora un volta ( raccogliendo tutte le sue forze per non perdere l’appiglio) “Ho portato il denaro che ha chiesto.” Stava mettendocela tutta per continuare a essere se stesso nonostante l’inverosimiglianza  di ogni cosa.
Lei si era sdraiata sulla coperta e, con le caviglie accavallate e due cuscini sotto la testa cominciò allegramente a cantare: “Oh Lydia, oh Lydia, my encyclo-pid-e-a, oh Lydia, the  tattooned lady…
Era una delle vecchie, stupide canzoncine che lo Svedese aveva insegnato a sua figlia da piccola quando avevano visto che cantando non si inceppava mai.
“Sei venuto a scopare Rita Cohrn?”
“Sono venuto,” disse lui  “a consegnare il denaro.”
“Perché non sco-p-p-p-iamo, p-p-p-papà?”
“Se lei avesse un minimo di sensibilità per quello che stiamo passando….”
“Pianta Svedese. Che ne sai tu di sensibilità?”
“Perché ci tratta così?”
“Uuuaaah! Raccontamene un’altra. Tu sei venuto qui per scoparmi. Chiedi a chiunque. Perché un cane di capitalista di mezza età verrebbe a trovare  in una stanza d’albergo un pezzo di fica come? Per chiavarla. Dillo, dì solo: “ Sono venuto a chiavarti. A chiavarti per bene. Dillo Svedese.
“Non ho nessuna intenzione di dire una cosa simile. La smetta per piacere.”
“Ho ventidue anni e faccio qualunque cosa, Faccio tutto. Dillo Svedese.”
         Potevano portare a Merry queste cose, questa raffica di scherzi e d’irrisione? Sembrava che non riuscisse a insultarlo mai abbastanza. Stava forse impersonando qualcuno, recitando un copione preparato in anticipo? O quella con cui lo Svedese stava trattando era una persona con la quale non si poteva trattare perché era pazza? Era come il membro di una gang. Era il capo della gang, questa piccola delinquente dalla faccia terrea? In una gang si conferisce l’autorità al componente più spietato. E’ lei la più spietata o ce ne sono altri peggio di lei, quegli altri che in questo preciso momento stanno tenendo Merry prigioniera? Forse lei è la più intelligente. La loro attrice. Forse è la più corrotta. La loro puttana in erbe. Forse questo per loro è solo un gioco: ragazzi della borghesia decisi a far baldoria.
         “Non ti piaccio?” domandò “Non divampano ardenti desideri in un ragazzone come te? Su non sono una donna così spaventosa. Non puoi farti intimorire da una ragazzina come me. Guardati. Come un bambino cattivo. Un bambino che ha paura di essere svergognato. Non c’è altro che la tua famosa purezza, lì dentro? Scommetto che c’è qualcosa. Scommetto che lì dentro hai un bel pilastro,” disse “ il pilastro della società.”
         “Qual è lo scopo di tutte queste chiacchere? Vuole dirmelo?
         “Lo scopo? Certo, Farti guardare in faccia la realtà. Ecco lo scopo.”
         “E questa spietatezza è necessaria?”
         “Per farti guardare in faccia la realtà? Per farti ammirare la realtà? Per farti partecipare alla realtà? Per farti arrivare laggiù alle frontiere del reale? Non sarà uno scherzo campione.”
         Si era imposto di non farsi provocare dal disgusto che la ragazza ostentava di provare per lui, di non offendersi per nessuna delle cose che diceva. Era preparato alla violenza verbale e deciso, questa volta, a non reagire. La ragazza non mancava d’intelligenza e non aveva paura di dire tutto ciò che le passava per la testa: questo lo sapeva già. Ma la cosa che non aveva calcolato era lo stimolo della sensualità: non aveva previsto di poter essere aggredito da qualcosa di diverso dalla violenza verbale. Nonostante la ripugnanza che gli ispiravano il malsano pallore della sua carnagione, il trucco comicamente infantile e i dozzinali indumenti di cotone, semisdraiata sul letto c’era una giovane donna semisdraiata sul letto, e lo Svedese stesso, il superman delle certezze, era una delle persone con le quali lui non poteva venire a patti.
“Poverino” disse lei in tono sprezzante “Povero ragazzo ricco di Rimrock. Chiuso a chiave come una cassaforte. Scopiamo p-p-p-paparino. Ti porterò a vedere tua figlia. Ti sciacqueremo il cazzo, ti tireremo su la lampi e ti porterò dov’è.”
         “Veramente? Come faccio a sapere che lo farà?”
         “Aspetta. Vediamo come si mettono le cose. Il peggio che potrà capitarti sarà farti una passera di ventidue anni. Su paparino. Vieni a letto pa-pa-pa…..”
         “Basta! Mia figlia non c’entra niente con tutto questo! Mia figlia non ha niente a che fare con lei! Piccola stronza: lei non è degna di pulire le scarpe a mia figlia! Mia figlia non c’entra niente con quella bomba. E lei lo sa!”
         “Calma. Svedese, Calma, piccioncino. Se ci tieni a vedere tua figlia tanto quanto dici, ti calmerai e verrai qui a fare una bella scopata con Rita Cohen. Prima la scopata, poi il malloppo.”
         Aveva alzato le ginocchia verso il petto e ora, con i piedi piantati sul letto, aprì le gambe. La sua gonna a fioroni scivolò sui fianchi e Rita noin portava le mutande.
         “Eh – disse sommessamente – Mettilo lì. Comincia da lì. Tuto è permesso, tesoro.”
         “Signorina Cohen…” – Nella sua pregevole cassaforte di reazioni, lo Svedese non sapeva a quale ricorrere: questo ribollire e traboccare così viscerale, mescolato alla retorica, non era un attacco al quale fosse preparato. Quella ragazza aveva portato in albergo un candelotto di dinamite da tirare. Ecco di che cosa si trattava. Per far saltare in aria lui.
         “Che c’è caro?” rispose lei “Devi alzare la voce come un ragazzo grande se vuoi essere sentito.”
         “Cosa c’entra questo spettacolo con quello che è successo?”
         “Moltissimo” disse lei “Sarai sorpreso da come sarà chiaro il quadro delle cose che ricaverai da questo spettacolo”, Abbasso lentamente le mani fino a toccarsi il pelo pubico, “Guardala” gli disse, e, arrotolando verso l’esterno gli orli delle labbra con le dita, gli mostrò il tessuto membranoso, venato, screziato e cereo, che aveva la lucentezza da tulipano umido della carne scuoiata. Lo Svedese distolse lo sguardo.
         “E’ una giungla , lì sotto” disse lei “Niente che sia al posto giusto. Nulla a sinistra simile a ciò che sta a destra. Quante cose ci sono, in più? Nessuno lo sa. Troppe, per poterle contare. Ci sono delle ghiandole, lì sotto. C’è un altro buco. Ci sono dei lembi di pelle. Non vedi cosa c’entra, questa, con quello che è successo? Dai un’occhiata. Guarda bene a lungo.”
         “Signorina Cohen” disse lui guardandola negli occhi, l’unica cosa bella che la ragazza avesse la fortuna di avere (due occhi da bambina, scoprì, due occhi da buona bambina che non aveva niente da spartire con quello che stava facendo) “mia figlia è sparita, Una persona è morta.”
         “Tu non capisci. Non capisci niente. Guardala, Descrivimela. Ho capito male? Cosa vedi? Vedi qualcosa? No, tu non vedi niente. Non vedi niente perchè non guardi niente.
 "Non ha senso,  - disse lui - Lei non piega nessuno,  con questo sistema. Solo se stessa.
"Sai che misura è? Vediamo se sei bravo ad indovinare. E' piccola. Io credo che sia una sesta. Tra le taglie femminili, è la fica più piccola che ci sia. Di più piccole ci sono solo le bambine. Vediamo se calza bene, una sesta. Vediamo se una sesta ci permetterà di fare una scopata più bella, più focosa, più confortevole che tu abbia mai sognato di fare. A te piace la buona pelle, a te piacciono i bei guanti: sbattiglielo dentro. Ma piano piano. Sempre, la prima volta, infilalo piano.
“Perché non la pianta adesso?”
“Okay, se questa è la tua decisione, che sei un uomo tanto coraggioso da non volerla nemmeno guardare, chiudi gli occhi, vieni avanti e annusala. Vieni avanti e senti l’odore. La palude. Ti risucchia. Annusala, Svedese. Tu sai che odore ha un guanto. Lo stesso dell’interno di una macchina nuova. Beh, questo è l’odore della vita. Senti questo. Senti l’odore di una fica nuova di zecca.
I suoi occhi neri da bambina. Pieni di eccitazione e di allegria. Pieni di audacia. Pieni d’irragionevolezza. Pieni di stramberia. Pieni di Rita. Era, si, una commedia, ma solo per metà. Per agitare. Per infuriare. Per eccitare. Rita era in un stato alterato. Il diavoletto del sovvertimento. Lo spiritello del disastro. Come se nell’essere la sua torturatrice e nel rovinare la sua famiglia avesse trovato il malizioso significato della propria esistenza. La Figlia del Caos.
“Il tuo autocontrollo è straordinario, - disse lei – Non c’è niente che possa farti perdere la tramontana? Non credevo che esistessero ancora delle persone come te. Qualunque altro uomo sarebbe stato sopraffatto dal suo cazzo duro qualche ora fa. Sei una delusione. Assaggiala.
“Tu non sei una donna. Questo non fa di te una donna, nel modo più assoluto. Questo ti rende la parodia di una donna. E’ uno schifo” – Rispondendo rapidamente al fuoco come un soldato attaccato dal nemico.
“E un uomo che non vuole nemmeno guardare, di cos’è la parodia?” – gli chiese lei – “Guardare non appartiene semplicemente alla natura umana? Cosa si può dire di un uomo che guarda sempre da un’altra parte perché quello che ha davanti agli occhi è per lui troppo immerso nella realtà? Perché non c’è nulla che concordi con mondo che conosce? Che crede di conoscere. Assaggiala. Certo che è uno schifo, caro il mio boy scout: io sono depravata!” -  E ridendo allegramente del suo rifiuto di abbassare lo sguardo anche solo di un centimetro gridò: - “Ecco!”
Doveva aver abbassato la mano, la sua mano doveva essere sparita dentro di lei, perché dopo un attimo era tutta la mano quella che Rita alzava e tendeva verso di lui. La punta delle dita gli portava il suo odore sotto il naso. Questo non poteva evitarlo, il suo odore fecondo.
“Questo svelerà il mistero. Vuoi sapere cosa c’entra con quello che è successo?” – disse lei – “Questo te lo dirà”.
C’erano in lui tanta emozione, tanta incertezza, tante inclinazioni e controinclinazioni, era così preso da impulsi e controimpulsi, che non sapeva più dire quali di essi avesse tirato la linea che era deciso a non oltrepassare. Tutte le sue riflessioni sembravano svolgersi in una lingua straniera, ma era ancora abbastanza lucido per non superare quel limite. Non l’avrebbe tirata su dal letto e scaraventata contro la finestra. Non l’avrebbe tirata su dal letto e buttata sul pavimento. Non l’avrebbe tirata su dal letto per nessun motivo. Tutte le forze che gli restavano sarebbero state raccolte con l’ordine di tenerlo inchiodato ai piedi del letto. Non si sarebbe avvicinato a lei. Poi la mano che Rita gli aveva offerto tornò lentamente verso l suo viso, descrivendo strani e comici piccoli cerchi nell’aria mentre si avvicinava alla sua bocca. Quindi, a uno a uno, Rita si fece scivolare le dita tra le labbra per pulirle. – “Sai che sapore hanno?” Vuoi che te lo dica? Hanno lo stesso sapore di tua f-f-f-figlia”.
Qui lo Svedese fuggì dalla stanza. A gambe levate.

domenica 28 ottobre 2018

L'ntervista di Rossana Rossanda



Venerdì 26 ottobre 2018 Diego Bianchi ha trasmesso su Propaganda Live, il programma su La7, un’intervista a Rossana Rossanda realizzata qualche giorno prima. La puntata integrale è qui. Rossana compare dopo 1 ora e 55′ circa.
Pubblichiamo lo sbobinato della trasmissione per gentile concessione dell’autore. 
Sul manifesto di domenica 28 ottobre il secondo articolo di Rossana, dopo quello sull’aborto dei giorni scorsi.
Sei appena tornata dalla Francia, mi hai detto che non pensavi di trovare così l’Italia. Che pensavi?
Mancavo dall’Italia da 15 anni, pensavo di trovare un paese in difficoltà economica, politicamente basso, ma non scivolata dov’è adesso, con questa lite continua. Nessuno sente il problema di dire com’è che siamo arrivati a questo punto, com’è che oggi si possono risentire accenti che dopo la guerra non erano più pensabili. La sinistra, che ha perso milioni di voti, non si interroga o, se si interroga, non ce lo dice.
Una volta invece ci si interrogava sempre.
Certo. Adesso non so più se il partito democratico, o come si chiami, farà il congresso.
Quei bei congressi di una volta…
Belli non erano. Erano anche un po’ noiosini. Però c’era il problema di dire dove siamo, cosa succede su scala mondiale, su scala italiana e che cosa proponiamo noi. Sono cose elementari, perché una forza politica deve chiedersi in che mondo mi trovo, in che paese siamo, e che cosa farei io se fossi il governo.
Facciamo un congressino veloce. Ti sei data una risposta, una motivazione? Su scala internazionale per esempio in Brasile sta vincendo l’estrema destra.
Accade dappertutto. Una ipotesi è la delusione fornita dalla sinistra, sia nei luoghi dove ha potuto governare, sia in quelli dove non lo ha fatto. C’è delusione. Gli operai non votano più.
Non votano più a sinistra?
Non votano più. La sinistra ha perduto il suo elettorato.
Sei ottimista sul breve termine?
No. La sinistra del Pd di fatto non ha proposto niente di profondamente diverso da quello che fa la destra e allora perché dovrebbe conservare il suo elettorato?
Ti riferisci a qualcosa in particolare?
L’immigrazione è a parte perché è un fenomeno nuovo. Ma certo che si potesse approvare l’ultimo decreto di Salvini, anche con la firma della Presidenza della Repubblica, era inimmaginabile. Gli stessi diritti che noi vorremmo per noi, non li possiamo dare ai migranti. E’ qualcosa di insopportabile, non pensi?
Anche per questo il Pd è stato molto criticato dalla sinistra…
Ma quale sinistra? La sinistra non è rappresentata. In verità il più grande partito è quello degli astensionisti. Molta sinistra si è astenuta, non trovando nessuna offerta che la persuadesse. Penso che è un errore astenersi. Quando non si ha una rappresentanza bisogna ricostruirsela.
E tu che cosa pensi?
Io sono una persona di sinistra. Sono stata cacciata dal Pci perché ero troppo a sinistra. Una persona mite come me è stata considerata una estremista. Oggi Bergoglio non credo che mi scomunicherebbe facilmente.
Bergoglio ha fatto il papa sull’aborto, proprio oggi…
E’ un punto delicato. E’ meglio lui della piddina di Verona che ha votato contro l’aborto. Vorrei un politico italiano che parlasse come il papa, per esempio sui migranti. Se Minniti fosse un vescovo verrebbe bacchettato da Bergoglio.
Si parla molto di questo governo di destra, di ritorno del fascismo, del razzismo. Chiedo a te che il fascismo l’hai vissuto.
Non sono per dire che siamo agli anni ’30. Sono preoccupata, anche se non credo che il paese accetterebbe un ritorno esplicito al fascismo. C’è la semina di mezzo secolo di democrazia. Ma la battuta di Salvini “prima gli italiani” è qualcosa di intollerabile. Perché “prima gli italiani”? Che cosa hanno fatto di meglio degli altri? Cosa c’entra con le idee che hanno fatto l’Italia? Il fatto che la sinistra italiana non ha avuto il coraggio di votare lo jus soli è veramente insopportabile. Bisogna essere italiani non solo per essere nati qui ma per che cosa allora? Non vorrei andare a frugare e trovare qualcuno che dice che ci sono le facce ariane e quelle non ariane. Sento l’odore di qualcosa di molto vecchio.
Sei stata responsabile della politica culturale del Pci. Chi ti aveva dato questo ruolo?
Togliatti.
E che ne pensi, esistono oggi politiche culturali?
Non mi pare. La cultura significa i valori, per che cosa ti batti. Adesso il partito democratico non si batte più neanche per l’uguaglianza dei migranti. Non lo vedo alla testa e neppure parteggia per la politica delle donne. La 194 è una legge degli anni Settanta. Oggi forse non la rifarebbero più.

Quindi essere del secolo scorso può diventare quasi un vanto? Assolutamente sì. Io sono del ‘900 e lo difendo. E’ stato il primo secolo nel quale il popolo ha preso la parola dappertutto. E dove l’ha presa, l’ha presa sostenuto dalla sinistra.
La domanda che in tanti si fanno, anche a sinistra, è come comunicare. Tu frequenti i social network?
No. Zero. Io sono sempre stata povera ma non vorrei dare neanche mezzo euro a Zuckerberg. In gran parte dipende da lui se siamo messi così.
Ci sono però questi strumenti di comunicazione, anche e soprattutto in politica.
Non so se sia una vera comunicazione. Comunicare significa parlare a qualcuno di cui consideri che ha la tua stessa dignità.
Come si fa a parlare anche alla testa e non solo alla pancia? La sinistra sembra afona in entrambi i casi. Non è capace o non sa cosa dire?
Perché non ci crede più. Non è capace. Se la sinistra parla il linguaggio se non proprio della destra comunque dell’esistente, non può essere votata dall’operaio. La sinistra deve parlare a quella che è la parte sociale dell’Italia più debole e meno ascoltata. Quando uno vota il jobs act indebolisce le difese degli operai. Si può continuare a chiamarlo contratto a tutele crescenti, ma la verità è che ha diminuito la forza operaia.
Che idea hai sul Movimento 5 Stelle?
Il Movimento 5 Stelle non è niente. Gli italiani vogliono questa roba informe, generica, si fanno raccontare delle storie. Nella Lega invece cercano un’identità cattiva. Questo è Salvini. Di Maio non è cattivo, non è nulla.
Grazie compagna Rossanda.
Caro compagno… certo è difficile dire oggi questa parola. Non capiscono più in che senso lo dicevamo. E’ una bella parola ed è un bel rapporto quello tra compagni. E’ qualcosa di simile e diverso da amici. Amici è una cosa più interiore, compagni è anche la proiezione pubblica e civile di un rapporto in cui si può non essere amici ma si conviene di lavorare assieme. E questo è importante, mi pare.
[Diego Bianchi 28/10/2018]

martedì 23 ottobre 2018

Pallidi segni di quiete, Adania Shibli

Raccontare il dolore, l’estraniamento, l’umiliazione quotidiana causate dall’occupazione israeliana della sua terra, la Palestina, soffermandosi su piccoli dettagli che, messi insieme, arrivano a indagare i sentimenti più nascosti dell’animo umano. È questa la cifra stilistica della scrittrice Adania Shibli, nata nel 1974 in un villaggio dell’alta Galilea e vincitrice tre volte del premio della fondazione A. M. Qattan.
Dell’autrice palestinese sono stati tradotti in italiano due libri: Sensi (nel 2007) e Pallidi segni di quiete (nel 2014) pubblicati entrambi da Argo. L’abbiamo intervistata prima del suo arrivo a Napoli dove oggi e domani è ospite della quinta edizione della rassegna Femminile palestinese curata da Maria Rosaria Greco.
Lei scrive che i «palestinesi sono come dei detective alla ricerca della tracce di una vita scomparsa». Dove è il confine in Palestina tra visibile e invisibile?
Per me la questione è più chi decide i confini tra visibile e invisibile. Come primo passo del processo di oppressione, le autorità israeliane lavorano costantemente per cancellare la Palestina. Ciò avviene a molti livelli: dall’architettura dei paesaggi all’archeologia, dalla costruzione di strade per coloni alla distruzione e allo sradicamento di case e alberi. L’esistenza palestinese è poi spesso resa invisibile anche quando li si rende visibili soltanto in una situazione specifica: quando reagiscono alla violenza coloniale con mezzi violenti. E in questo anche i media ne sono responsabili.
Altro aspetto da sottolineare è la riduzione a silenzio delle voci palestinesi. Per le autorità israeliane la lingua araba è diventata uno strumento che identifica i palestinesi e, pertanto, va soppressa. La recente legge sulla nazionalità degrada l’arabo da lingua ufficiale a «lingua a status speciale» e ha come obiettivo quello di rendere il linguaggio invisibile. L’odio e la discriminazione verso i palestinesi inizia a un livello sonoro, non solo a quello visivo: ascoltarli, sentire la loro narrativa è insostenibile perché è una minaccia. Perciò la loro lingua (l’arabo) deve essere silenziata oltre che sabotata.
Nei suoi libri lei descrive il dolore, la solitudine, l’estraniamento causati dall’occupazione israeliana. Eppure, non c’è spazio per la resa e la disperazione perché si resiste cogliendo piccoli dettagli della vita: gli occhi verdi del vicino, il vento dei campi…
Non limiterei le cause del dolore, della solitudine e dell’estraniamento alla colonizzazione e occupazione israeliane perché queste sono caratteristiche umane. È vero che Israele riveste a riguardo un ruolo di primo piano, ma è più interessante osservare come gli esseri umani in generale coniugano questi sentimenti e si possano nascondere o scusare per quello che fanno grazie a loro. I dettagli di vita presenti nei miei testi possono essere sia di dolore che di solitudine, ma anche domini dove si può resistere. Se noti il vento nei campi perché sei solo, è pur vero che questa situazione ti rivela un aspetto della vita che è un momento fugace e prezioso che ti permette di resistere, di rimanere resiliente di fronte alla solitudine o al dolore.
Contro l’assurdità dell’occupazione, lei sembra suggerire – attraverso la sua scrittura – due forme di resistenza: la ricerca della bellezza e una sorta di autismo («tawwahud») emotivo. I fallimenti di decenni di lotta nazionale le hanno fatto perdere la fiducia nella storia collettiva?
L’occupazione non è affatto assurda: è pensata e misurata con modalità che causano ai palestinesi emozioni assurde e conflittuali, ponendoli ai margini della loro umanità. In una situazione simile, l’atto di scrivere può servire, ma non si materializza in una deliberata opposizione tra esperienze individuali e collettive. Scrivere, e probabilmente parlare e sentire, sono spesso i domini in cui un individuo crea una zona dove si protende verso gli altri abbandonando la propria individualità. La mia scrittura tenta probabilmente di contemplare lo spazio creato da queste esperienze singolari e cosa queste creano nella collettività. Non parlerei, tuttavia, di fallimenti politici palestinesi quando parliamo di storia collettiva. I palestinesi non possono essere colpevolizzati per i fallimenti a cui sono stati soggetti, ma sono responsabili quando cadono nelle trappole che Israele pone. I checkpoint, costruiti per insultarci, umiliarci e cancellarci come esseri umani, causano rabbia e vendetta, ma se si reagisce così, si adotta la posizione che l’occupazione israeliana ha concepito per noi. È qui il fallimento.
Nonostante la centralità della Palestina, lei ha detto che i suoi lavori sono «senza spazio e dislocati». Vuole rappresentare una condizione di sradicamento dell’umanità più generale?
In realtà non voglio rappresentare nulla perché farlo vuol dire assumere una posizione di potere. A me piace guardare, contemplare e riflettere. Se parte del mio lavoro è «senza spazio e dislocato», lo è puramente perché è il risultato di una contemplazione su come qualcuno possa esserlo.
La sua scrittura evoca costantemente immagini. Quanto la sua prosa, a tratti lirica, prende in prestito dalla grande tradizione poetica palestinese e dalle arti visive?
Forse la mia scrittura evoca immagini perché guardo e contemplo. La mia curiosità e i miei molteplici interessi formano il mio modo di scrivere. Non classifico però le influenze in base a categorie nazionalistiche. La lingua araba si materializza non solo per le cose che sono state scritte dai palestinesi, ma anche attraverso le traduzioni che sono state fatte in arabo. Tradurre in arabo ad esempio Wislawa Szymborska apre la mia lingua a nuove sensibilità e fa rientrare il suo lavoro nella grande tradizione poetica in arabo.
Contrariamente a quanto ha fatto lei, alcuni autori palestinesi d’Israele pubblicano anche (o solo) in ebraico. Come giudica la loro scelta?
La definizione «palestinesi d’Israele» è un’invenzione degli israeliani. Mi mette in una categoria che non ho scelto e in cui non consento di essere messa. Tutte queste divisioni [terminologiche] sono frutto della loro opera di colonizzazione. La scelta di scrivere in una lingua differente dall’arabo è una scelta personale: ognuno decide per sé. Io sono molto felice di essere nata di lingua araba. Che fortuna, in un mare di sfortuna.
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SCHEDA: OGGI E DOMANI LA QUINTA EDIZIONE DELLA RASSEGNA NAPOLETANA

Inizia oggi a Napoli la quinta edizione di Femminile Palestinese, la rassegna culturale curata da Maria Rosaria Greco e promossa dal Centro di Produzione Teatrale Casa del Contemporaneo. Appuntamento con Adalia Shibli oggi alle ore 16.30 alla sala conferenze di Palazzo Du Mesnil in via Chiatamone 61. Shibli dialogherà domani alla libreria Tamu (via Santa Chiara 10) con l’autrice palestinese Salma Dabbagh. Modera Monica Ruocco, docente di lingua e letteratura araba all’Orientale. «Femminile palestinese» ritornerà nel 2019 con concerti, cinema, teatro e reading: tra gennaio e marzo si svolgerà il progetto di comunicazione con l’Accademia di Belle Arti «Palestina-Israele. Oltre la narrazione» che si concluderà con una mostra dei poster prodotti da 15 designer. Sempre a marzo concerto della band siriano-palestinese Hawa Dafi. E infine un evento speciale, «Cinema, hummus e felafel», film palestinesi accompagnati dal cibo tradizionale.
[Roberto Prinzi 23/10/2017

Notturno buffo. Giorgio Mascitelli

Spesso la sguardo comico è quello che riesce meglio a mostrare gli aspetti più profondi e terribili della realtà. Allora tra una risata e un sorriso, sempre accompagnati da un retrogusto amaro, quasi tragico, emergono alla coscienza di chi sta usufruendo dell’opera buffa, tutta l’assurdità e il terribile potere di regole e norme, spesso non scritte, abitudini e comportamenti, sottili oppressioni ed evidenti ingiustizie che caratterizzano la vita e la società contemporanea. E così, in maniera per così dire leggera, ma non per questo meno acuta e penetrante, il discorso diventa immediatamente politico, di critica radicale allo stato di cose presenti. È proprio questo che avviene nell’ultima fatica letteraria di Giorgio Mascitelli, Notturno buffo, edito da Effigie (pp. 175, euro 15).
IL LIBRO raccoglie undici racconti, tutti caratterizzati da un approccio umoristico e corrosivo che non si limita, appunto, a suscitare l’ilarità in chi legge ma, quasi nella scia della lezione pirandelliana sull’umorismo, costringe il lettore a riflettere, facendo emergere il lato tragico delle situazioni e svelando contraddizioni e meccanismi di dominio della società contemporanea. A volte il congegno comico è innescato anche dalla situazione, che si presenta come classico topos umoristico. È il caso, per esempio, del racconto in cui un postino, viene continuamente aggredito dai cani delle case in cui deve consegnare la posta. O di Un happy hour in cui il protagonista, durante un importante incontro di affari, resta chiuso nel bagno del locale e non vuole chiedere aiuto rumorosamente per evitare di mostrare la propria imbranatezza all’interlocutore di lavoro. Sempre, però, a mettere in moto il meccanismo tragicomico sono i ragionamenti dei protagonisti, le loro riflessioni che, rielaborando ancora una volta una tecnica pirandelliana, sviscerano da tutti i punti di vista la propria situazione. Si vedano, a tale proposito, soprattutto i racconti dedicati all’insonne e al fuggitivo. La vera forza, però, del congegno narrativo costruito da Mascitelli risiede nella scrittura.
UNA SORTA di pastiche, nelle cui ampie volute si passa da riferimenti e citazioni colte a richiami e spot pubblicitari, a gerghi giovanilisti e retoriche burocratiche. Ed è proprio lì, all’interno della lingua utilizzata e grazie alla sua potenza espressiva che si dispiega appieno il contrasto tra riso e amarezza, tra consapevolezza e critica, tra ironia e coinvolgimento. Un contrasto che serve essenzialmente a far venire allo scoperto non tanto l’innata essenza dell’uomo, quanto piuttosto a criticare meccanismi e contraddizioni attuali, della contemporaneità. Una critica radicale, dunque, all’altezza dei tempi, di questa società liquida, postindustriale, postfordista.
[Mauro Trotta 23/10/2018]