mercoledì 8 maggio 2019

Bangla


Umanità in rivolta, Aboubakar Soumahor

Una giornata passata con la schiena piegata sui campi in attesa della paga, di fame, giornaliera. E quando arriva il momento, il padroncino che promette: «lavori bene, ti prendo con me per sempre. Domani ci vediamo alla stessa ora di questa mattina». La prospettiva è un salario, di merda, ma certo, evitando così l’umiliazione di essere scelto, come fosse una bestia, nello svincolo di una squallida via pugliese.
IL GIORNO DOPO, il protagonista di questa storia di ordinaria ingiustizia si presenta in forte anticipo, ma il padroncino non si fa vedere né allora né in seguito. È questo il primo rapporto con un mercato del lavoro con caratteristiche schiavistiche di Aboubakar Soumahoro, sindacalista Usb, orginario della Costa d’Avorio, divenuto uno dei volti noti di un sindacalismo radicale perché legato a concretissime aspirazioni di «umanità e giustizia sociale».
ABOUBAKAR ha ora messo in parole scritte molte delle cose sostenute con pazienza e documentazione nelle interviste rilasciate o quando ha preso la parola in trasmissioni in prima serata («Propaganda Live», ma non solo). Il libro, pubblicato da Feltrinelli con il titolo Umanità in rivolta (pp. 125, euro 13), alterna ricordi personali a riflessioni su una filiera produttiva – l’agro alimentare – che produce un fiume di profitti sulla pelle di migranti e non solo pagati poche decine di euro a giorno.
L’AUTORE LO SCRIVE senza girarci intorno: lo sfruttamento è la caratteristica dominante nelle campagne italiane. E se è ormai drammaticamente noto che la maggioranza dei salariati sono migranti, Aboubakar Saumahoro ricorda anche la donna «italianissima» morta di fatica nelle campagne pugliesi, punta anche lei di un iceberg che pochi vogliono vedere.
Lo sfruttamento è dunque indifferente al colore della pelle, nonostante non possa essere taciuto il fatto che la maggioranza degli omicidi da lavoro nell’agricoltura coinvolga uomini e donne migranti morti in incidenti stradali o negli incendi che scoppiano nei piccoli, tanti lager dove sono segregati tanto i «regolari» che gli «irregolari».
Le parti più analitiche del libro sono quelle sullo sfruttamento nella filiera dell’agro-alimentare e quella sulla razzializzazione del mercato del lavoro. La prima è una filiera globale tanto nella produzione che nella distribuzione e vendita. I profitti – miliardi e miliardi di euro – sono garantiti di salari da fame nella produzione e nella logistica (i facchini). Importante è che l’autore abbia tenuto insieme i due momenti, perché la produzione senza una distribuzione just in time vedrebbe realizzati lentamente i profitti che invece scorrono senza intoppi attraverso il lavoro semischiavistico di agricoltori e facchini.
ALTRETTANTO COINVOLGENTE è l’analisi sulla razzializzazione del mercato del lavoro. I migranti sono stati sottoposti a un regime progressivo di apartheid sin dagli anni Ottanta del Novecento. Segregati nelle campagne e nelle città, con una riduzione e un rifiuto istituzionalizzato di diritti civili, sociali e politici dei quali Matteo Salvini è l’ultima, in ordine di tempo, manifestazione Qui Aboubakar Saumahoro è amaro nel suo pacato realismo: non c’è stata nessuna sostanziale differenza tra governi di centro sinistra e centro destra.
L’unica diversità è che questi ultimi non nascondono il razzismo di stato dietro l’ipocrisia e i tempi più lenti come invece hanno fatto e fanno quando sono al governo le coalizioni di centro sinistra.
L’autore non sostiene però che tutti sono uguali. Il suo sindacato, l’Unione sindacale di base, non nasconde il fatto di essere di sinistra e di essere un sindacato di classe, ma sa che non ci sono «governi amici» quando si richiedono diritti civili, sociali per i lavoratori. La discriminante è se vengono accolte le proposte avanzate. E Aboubakar Soumahoro invita il lettore a tessere con pazienza relazioni che portino anche a piccoli risultati, ma costanti nel tempo e nelle spazio sociale.
IN FONDO, le grandi e radicali trasformazioni si costruiscono seguendo il passo più lento di chi è in marcia. Lo diceva una icona della sinistra mondiale, il Che. Con meno enfasi lo dice anche quest’uomo che fa parte di quella genia di uomini e donne che «non mollano mai». Sia quando sono sconfitti. Sia quando hanno piccole, ma seminali vittorie.
Il libro sarà presentato sabato 11 maggio al Salone del libro di Torino in due occasioni: alle 13,30, alla sala Ora, con il sindaco di Riace Mimmo Lucano e la scrittrice Nadia Terranova; e alle 16 in dialogo con Michela Murgia nell’Arena Robinson.
[Benedetto Vecchi 08/05/2019]

martedì 7 maggio 2019

Le streghe sono ovunque, Mona Chollet

«Le streghe sono ovunque» scrive Mona Chollet nel suo ultimo libro intitolato appunto Streghe (Utet, pp. 256, euro 18, traduzione di Eleonora Marangoni). Eloquente il sottotitolo dell’originale francese: «la potenza imbattuta delle donne», a disambiguare ogni dubbio di vittimismo o resa da parte delle protagoniste. Fin dagli anni Settanta l’immaginario femminista, secondo la giornalista e saggista franco-svizzera, è abitato dalla figura della strega che avrebbe preso sempre più spazio acquisendo una dimensione divisa tra il riconoscimento dell’oppressione storica e l’esaltazione della componente ribelle e rivoltosa.
Emblema delle persecuzioni, la strega è anche rappresentazione dell’inafferrabilità di quelle donne che non hanno voluto adeguarsi al modus vivendi delle varie epoche, già del 1976 Luisa Muraro ne La signora del gioco (riedito da La Tartaruga, nel 2006) aveva fatto risuonare le voci delle donne processate tramite l’esposizione diretta delle loro testimonianze. In Calibano e la strega (Mimesis, 2015), Silvia Federici interpretava la caccia alle streghe (XV-XVI) secondo la convinzione che le persecuzioni nei confronti delle donne avessero l’obiettivo di consolidare la supremazia del capitalismo, altrettanto utile è il volume di Barbara Ehrenreich e Deirdre English intitolato Witches midwives and nurses, pubblicato a New York nel 1973 (edito in Italia nel 1975 con il titolo Le streghe siamo noi. Il ruolo della medicina nella repressione della donna presso La Salamandra).
Incontriamo Mona Chollet nella sede di Le monde diplomatique, in un dialogo aperto alla comprensione delle similitudini tra l’antico e il moderno e a quelle che l’ecofemminismo continua a reperire tra la distruzione progressiva del pianeta e le istanze dominatrici dell’essere umano.
Lei scrive che i processi alle streghe non si sono svolti durante i secoli d’oscurantismo medioevale, bensì nel «mondo nuovo» – umanista – dove a regnare sarebbero dovuti essere razionalismo e chiarezza. La filosofa americana Susan Bordo parla di questo cambiamento epocale come qualcosa di drammatico…
Io stessa, nel mio immaginario, attribuivo al medioevo caratteristiche d’oscurantismo. Il processo di svalorizzazione è stato supportato da una logica «per opposizione» secondo cui l’umanesimo, l’antropocentrismo e la razionalità rappresenterebbero dei valori indiscutibili. In realtà la questione è profondamente più complessa, prova ne è che i processi alle streghe e le uccisioni di massa delle stesse si siano svolti perlopiù in epoca moderna. Invece di inneggiare ottusamente all’evoluzione della storia in senso forzatamente progressista sarebbe un onesto arricchimento culturale riconoscere che l’evoluzione in termini antropocentrici non esclude sistematicamente che si possa virare verso l’oppressione e la violenza sociale. I processi alle streghe sono nati da tutto questo, con il sovrappiù dell’oppressione sessista.
Le forme di controllo sui corpi delle donne e i processi per stregoneria cosa hanno in comune?
Nel mio libro ho voluto soffermarmi sulla questione, molto estesa, dei corpi non conformi e del rifiuto di ogni eccedenza che non fosse gestibile da parte del potere maschile. Durante i processi per stregoneria, ma anche prima (per la recluta delle colpevoli) le donne venivano sottoposte a una speciale e terribile «perlustrazione corporea»: venivano rasate, depilate e messe a nudo alla mercé di cosiddetti esperti che avrebbero dovuto riscontrare la presenza di «segni» della possessione demoniaca. Tuttavia la storia ci ha già detto molto a riguardo: bastava un neo, un’imperfezione, una cicatrice o anche nulla a scatenare accuse che generavano automaticamente condanne. Nei processi per stregoneria il corpo delle donne doveva essere visibile nella sua totalità e in seguito a sentenze sommarie questo stesso corpo era spesso bruciato e ridotto in cenere. Annientato. Per ritornare alla sua domanda mi sento di risponderle che in comune c’è sicuramente un desiderio di annientamento risolutivo del corpo delle donne, un grande timore per un’estraneità considerata fuori controllo, non dominabile nella sua interezza e quindi potenzialmente pericolosa.
Lei allude all’esigenza di rappresentazioni e narrazioni diverse della figura della strega: che si distanzino sia da quelle edulcorate delle giovani streghe del mercato cinematografico sia da quelle selvaggiamente demonizzate. Secondo Muraro «la signora del gioco» si riferisce all’appellativo con cui era chiamata l’entità femminile che vegliava ai rituali delle streghe – processate e uccise. Assimilata a Diana, Demetra, Ecate e Erodiade, è una dea dallo splendore maestoso, esperta conoscitrice di rimedi. Cosa ne pensa di questa rappresentazione?
Fino a qualche decennio fa l’immaginario popolare era abitato da graziose streghe wasp oppure da terribili megere dalle attitudini diaboliche. Bisogna riconoscere che recentemente la figura della strega ha acquisito una certa complessità, abbandonando il carattere stereotipato delle streghe del mercato cinematografico statunitense degli anni Sessanta. Meno caricaturali, queste «nuove streghe» hanno mantenuto comunque la componente della giovinezza, unita a quella della bellezza e del colore bianco della pelle. E le «streghe cattive» sono rimaste tali e quali invece: malefiche, di aspetto sgradevole (seppur talvolta dissimulato) e vecchie. Quand’ero bambina il mio immaginario fu abitato da un’eccezione: Svolazza Beltempo, uno dei personaggi de I Figli del mastro vetraio (Iperborea, 2018) della scrittrice svedese Maria Gripe, rappresentazione narrata di una misteriosa vecchia che tesse tappeti magici in cui può leggere il futuro. Il suo è un sapere legato alla terra, a una forza vitale, a una riserva di pratiche che il sapere ufficiale ha cercato in ogni modo di reprimere. Suppongo che l’immaginario simbolico da cui deriva il personaggio di Gripe, la sua eccezionale rappresentazione, derivi da ciò che è rimasto delle entità femminili e delle dee: quello insomma a cui la sua domanda allude, un legame con una divinità di probabile origine pagana e con la genealogia dei saperi tramite trasmissione femminile e matrilineare.
Le streghe erano accusate di «insidiare la vita» e di contrapporsi all’utilità sociale del corpo femminile…
Una delle accuse ritenute più infamanti che veniva rivolta alle accusate era quella di dominare il «valore riproduttivo» delle donne. Era imputata loro la maestria nel controllo della maternità attraverso la capacità di provocare gli aborti o semplicemente quella di conoscere i rimedi che evitassero la gravidanza. La fantasia più ricorrente attribuiva alla presunta strega la facoltà e il desiderio di consacrare il nascituro al diavolo, prima che il neonato fosse battezzato. In questo panorama di timori riguardo a poteri ingestibili la sterilità ma anche lo stesso desiderio sessuale, che non fosse finalizzato alla riproduzione, erano più che mal visti. In questo senso abominevole era considerato il perdurare del desiderio sessuale durante la vecchiaia – desiderio di per sé non funzionale alla maternità e perciò condannabile. Perciò il culto della maternità non era solo un’ingiunzione a un ruolo assegnato naturalmente ma anche un un’ingiunzione alla produttività a tutti i costi: fare più figli significava poter usufruire di più braccia in grado di lavorare e produrre, in scala esponenziale. Per la contemporaneità il discorso resta ricco di ingiunzioni e idealizzazioni parimenti gravose; vorrei segnalare a tal proposito un libro che ha scandalizzato molte e molti: Pentirsi di essere madri di Orna Donath (Bollati Borlingheri, 2017).
Il movimento ecofemminista degli anni Ottanta nacque dall’idea che la cultura occidentale si comportasse con la terra allo stesso modo di come si comportava con le donne: entrambe erano identificate con i processi di creazione della vita e della morte. Trova possibile ricostruire un legame con la natura dalla quale le donne si sono autoescluse per timore di esservi identificate per forza?
Io ho scelto di non vedere il legame tra le donne e la terra come a un’intimazione essenzialista. Dico questo riconoscendo, come molte altre prima di me, i rischi dell’essenzialismo. Ma è importante rimarcare cosa hanno subito, in maniera analoga, le donne e la natura: esse hanno patito e patiscono del desiderio di domesticazione da parte dell’uomo. La «donna addomesticata» sarebbe infatti meno pericolosa, alla pari di un giardino domestico confrontato a una foresta. Gli studi ecofemministi poi hanno dimostrato come l’agricoltura, intesa come sfruttamento intensivo e abusivo della terra, abbia rappresentato una violenza molto simile a quella perpetrata per secoli sui corpi delle donne, e che continua a perpetrarsi. Trovo che i movimenti ecofemministi stiano riprendendo vigore e gli studi che continuano a farsi (come quelli riportati in Reclaim, a cura di Emilie Hache – Cambourakis, 2016) stiano generando delle rappresentazioni più eterogenee e insieme risolte del rapporto tra le donne e la natura.
[Francesca Maffioli 7/05/2019]