domenica 12 giugno 2016

Jerome K. Jerome, fare ridere l’uomo moderno, spaventato

Non saprei se Jerome K. Jerome possa essere anche per i miei nipoti quel grande umorista che è stato per me. Nonché zio archetipico, affettuoso consolatore, amico fidato della difficile infanzia. I suoi due capolavori Tre uomini in barca (1889) e Tre uomini a zonzo (1900), ripetutamente tradotti in italiano fin dagli anni venti, mi fornirono allora i criteri essenziali per capire il mondo degli adulti, la grande distinzione tra le donne (le zie Veronica, Clorinda, Reginarda) e gli uomini (gli zii Cesare, Augusto, Ennio), i cani e i gatti, i cavalli, le barche e i treni, gli inglesi e i tedeschi – e per me entro quegli schemi sono tutti rimasti, malgrado sia trascorsa una seconda guerra mondiale. «I ridenti sono bonari e spesso si schierano nelle file dei derisi; i bambini e le donne ridono più di tutti; gli orgogliosi, che si paragonano continuamente agli altri, meno di tutti; e Arlecchino, che si ritiene una nullità, ride di tutto, mentre il fiero musulmano di niente», scriveva Jean Paul.

E non dimenticava l’aiuto che il riso spesso dà all’uomo moderno, spaventato o perlomeno disorientato da circostanze impreviste: la pausa dell’indecisione, quasi come «il solletico fisico con quel suo tremito e quella sua oscillazione – come un dittongo e un doppio denso un po’ matto – tra dolore e piacere». A chi soffra di ansia in aereo, consiglio un Jerome, meglio di un Woodhouse o di un Thurber. Ma chi soffre di insonnia non legga la mirabile scena del cocchiere cialtrone e del suo ironico cavallo di fronte alla Porta di Bradenburgo. «Disse che era costruita in arenaria, a imitazione dei Propellei di Atene. A questo punto il cavallo, che ammazzava il tempo leccandosi le zampe, volse la testa. Non disse niente, si limitò a guardare il padrone. Questi cominciò da capo, nervosamente. Questa volta disse che era a imitazione dei Propedilei. A questo punto il cavallo decise di proseguire per la Unter den Linden, e niente avrebbe potuto dissuaderlo dal proseguire per la Unter den Linden». E voi non dormirete più, in preda alla misteriosa eccitazione del riso.

Manganelli, che aveva dedicato a Jerome un lungo saggio, raccolto in Angosce di stile, avrebbe festosamente accolto questi scritti inediti del 1898, Sul tempo perso a perdere tempo. I ripensamenti oziosi di un ozioso (Piano B edizioni, nella convincente traduzione di Alessandra Goti, pp. 215, euro 15,00). Fra le tante considerazioni acute di Manganelli su Jerome, una in particolare sembra si adatti a queste frammentarie situazioni quotidiane che ci vengono presentate con la consueta buona volontà di istruire e divertire: l’ineffabile rapporto tra uomini e animali. «Nel mondo pseudo infantile di Jerome vige una condizione di fiabesca uguaglianza fra tutti gli esseri animati, che si estende agevolmente anche agli oggetti. Cavalli, cani e gatti hanno idee, umori, uno stile di comportamento. Le loro figure retoriche sono imparentate alle figure retoriche umane. Non sono infantili». Parlano con proprietà e non bambineggiano, sono colti e sanno da dove provengono, non sopportano di essere trattati con scarsa considerazione, e accampano giuste pretese. Invece a volte è lo stesso inventore dello scambio comico, l’umorista, a doversi destreggiare tra due opposti. «La maggior parte dei drammi della vita possono essere visti sia come farsa che come tragedia, dipende dal capriccio dello spettatore. Gli attori le inscenano sempre come tragedie, ma in fondo è questa l’essenza di una farsa».
Quando Jerome fa uso del buonsenso va spesso in perdita. Con la sua consueta onestà si chiede che tipo di uomo lui sia. La rapidità dei suoi cambiamenti lo spaventa, si vede posseduto dall’altro se stesso, quello odioso, quello che non si può assolutamente dire un brav’uomo, ma che spinge per mettersi nei panni dell’altro, quello buono. «Lui insiste per essere me stesso e sostiene che io sia solo uno sciocco sentimentale che rovina tutte le sue potenzialità. A volte me ne libero per un po’ ma finisce sempre per tornare; poi è lui a liberarsi di me e io divento lui. È tutto molto confuso. A volte mi chiedo se sono davvero me stesso». Ci tiene a precisare che anche del suo sorriso diffida, e non osa affrontarlo in uno specchio. Jerome non è sempre padrone del gioco comico, pericoloso quando non sia calcolato entro una storia che lo pianifica e lo scandisce.
Come quando racconta la surreale storia del quadro del nonno fatto con i tappi della birra allo zenzero, della infernale poltrona a dondolo costruita con un paio di fusti di birra, una trappola mortale ma meno offensiva degli arredamenti per la casa ricavati da confezioni di uova. Con diverse confezioni di uova una giovane coppia costruiva la scrivania, l’armadio, il letto e faceva l’amore su confezioni di uova. «Come erano pittoresche quelle stanze fai da te! Vedo il divano bitorzoluto, le poltrone che potrebbero essere state progettate dal Grande Inquisitore in persona, la cassapanca ammaccata che di notte era un letto, i pochi piatti blu comprati nei bassifondi fuori Wardour Street, lo sgabello smaltato a cui si restava sempre appiccicati, lo specchio incorniciato con la seta, i due ventagli giapponesi incrociati sotto una litografia da poco, la copertura del pianoforte ricamata con piume di pavone dalla sorella di Annie…». Jerome non potrebbe essere più inglese come in questo sarcastico quadro del bel tempo che fu. «I suoi inglesi non sfuggono a quel moderato vilipendio che investe senza acrimonia ideologica anche tedeschi e francesi. Nell’insieme la sua caricatura non è estrosa, ma è nitida e fantasiosa».
C’è in lui qualcosa di Shaw, qualche potente guizzo di fabianesimo, allorché attacca sia le Masse che le Classi, prigioniere di incrollabili pregiudizi, il Vitello d’Oro o meglio il pentolone di carne per cui sacrifichiamo la nostra vita, le inevitabili delusioni di Cenerentola, il patriottismo d’accatto che è solo istinto di Maternità, «di che cosa si tratta se non dell’istinto materno di un popolo?… Maternità! È il diapason dell’orchestra di Dio, brutalità e crudeltà da un lato, tenerezza e abnegazione dall’altro». E non dimentichiamo le riforme politiche che le pazze «Procellarie Tempestose», a cui anche lui appartiene, pianificano ogni giorno: abolizione della Camera dei Lord, repubblica… E l’eroina dei romanzi, di cultura bostoniana, perfetta, abbagliante, nella sua bellezza «penosamente indescrivibile».
Ce n’è per tutti, per il signor Dickens e la sua biasimevole condotta coniugale, per il giovane sposo in viaggio di nozze che dovrebbe evitare il pericolo di una noiosa intimità, per i cani presuntuosi e i padroni malaccorti, per la graziosa ragazza del quadro che va a pesca di trote in calze traforate, «sotto un sole cocente, con un mazzo di primule bagnate dalla rugiada tra i capelli; e ogni volta che scuote la canna con grazia tira fuori un salmone». E non ultimo per se stesso. «È il mondo che invecchia, non noi… Il vino ha perso un po’ del suo sapore. L’umorismo di oggi non è più come prima. Gli amici stanno diventando noiosi e banali; certo è che non siamo noi ad esser cambiati».
[Viola Papetti 12/06/20.16]

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