domenica 20 agosto 2023

Il dolore di Dora Maar


 Questo quadro di Picasso, Buste de femme, della serie dei ritratti dedicati a Dora Maar, venne dipinto pochi anni dopo il «grido di dolore» di Guernica; presenta i caratteri della fissità e dello stupore senza tempo di un viso con gli occhi sbarrati di chi ha visto cose che non doveva o sperava di non dover vedere mai.
Ufficiali nazisti della Gestapo, a Parigi sino all’agosto 1944, non erano inclini a tormentare l’artista più di tanto (Picasso era già una figura mitica) e spesso visitavano il suo studio: all’orrore dello sguardo si può unire l’orrore di pensare che questo quadro l’avessero visto loro. In quegli occhi, c’è il dramma di un testimone obbligato a continuare a vedere.
Non è un quadro cubista classico, e soprattutto il linguaggio non sovrasta il sentimento; semmai pesca nell’universo sumero oppure egizio. Queste contaminazioni in realtà lo umanizzano e lo collocano di fatto nell’arte classica, quella senza tempo.
È la conclusione di un ciclo di ritratti iniziato nel 1937 e dedicato alla fotografa Dora Maar, per la quale Picasso aveva avuto una passione travolgente: in realtà nello stesso periodo un’altra donna cominciava a travolgere il suo cuore, assai incline ai patimenti d’amore, che infliggeva a getto continuo anche ad anime innocenti ignare di ciò che questo significava.
Buste de femme l’ho comprato a Zurigo quasi una cinquantina di anni fa (scambiandolo con l’opera di un artista degli anni sessanta), quando apparteneva a un giovane mercante/collezionista svizzero, scomparso poi a 43 anni (numero specchio della data del quadro), che all’epoca era considerato un enfant prodige nell’ambiente internazionale dell’arte: Thomas Ammann. Era l’ideatore del catalogue raisonné di Andy Warhol, di cui fece in tempo a pubblicare solo i primi tre volumi. Da lui avevo visto, e toccato, un quadro di Gauguin, e molti altri Picasso che avrei potuto esporre nella mia galleria di New York.
Ma era questa un’ipotesi di terzo grado perché mi richiedeva di comprare almeno due quadri che, ancorché sottovalutati all’epoca, erano una somma importante.
Ammann era anche un dandy, vestito sempre in modo irreprensibile, che ha passato più di un terzo della sua giovane vita sul «Concorde», molto più, quindi, che nella sua galleria privata a Zollikon. Quando arrivavo in visita da lui , spesso trafelato come un pendolare Italia-New York, mi accoglieva sempre con una bottiglia di Chateau Petrus d’annata, essendo lui completamente astemio.
Nella mia prima visita nel 1963 a Parigi, dove mi recavo spesso per cercare di convincere la celebre mercante Ileana Sonnabend, prima moglie di Leo Castelli, a prestarmi opere di Lichtenstein, Warhol, Jasper Johns e Rauschenberg, da esporre nella mia galleria torinese, capitavo dunque in Quai des Grands Augustins, non sapendo ancora che quel luogo aveva un legame con il quadro di Picasso che avrei posseduto in seguito. Una parte della mia giovinezza me la sono giocata così, facendo anticamera presso mercanti affermati, qualche volta scostanti, ma spesso fonte di ispirazione e di incontri casuali decisivi.
Tutta questa tiritera per arrivare a dire che la Sonnabend aveva la galleria non lontano da quella Rue des Grands Augustins dove Picasso aveva dipinto Guernica, e forse il mio quadro.
Un’opera del genere, alla fine degli anni settanta costava ancora poco, ma tant’è, i prezzi dell’arte sono sempre simbolici, non necessariamente conseguenti al valore intrinseco dell’opera: ma quale sarà mai? Senza rompersi il capo su questioni di lana caprina, salta tuttavia agli occhi che nella seconda metà degli anni settanta Picasso costava ancora meno di un astro nascente dell’avanguardia contemporanea.
La follia dei prezzi spropositati dell’arte del nostro tempo è una conseguenza della crescente disinibizione, sfacciataggine ed esibizionismo, corollari inscindibili della fretta della modernità di emergere e giocare le proprie carte: a me sembra a oggi piuttosto un disvalore, in tutti i sensi.
Una corretta dose di inibizione in realtà affratella i popoli, evitando atteggiamenti troppo aggressivi.
Anche nell’antico, l’«avidità» di Tiziano, che scriveva sempre a Carlo V e Filippo II di Spagna per battere cassa, come un povero vecchio bisognoso, strideva con la prudenza di Tintoretto, che viveva modestamente e spesso dipingeva senza compenso. Quindi anche nell’antico le cose non erano poi così diverse.
E questo sia di conforto per gente che come me continua a tormentarsi sul tema: stiamo ancora credendo di «vivere nel migliore dei mondi possibili»? (Candide, 1759).

[Gian Enzo Sperone 20/08/2023]

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