mercoledì 10 dicembre 2014

rassegna stampa


Sull'ultimo numero dell'Espresso c'è una bella intervista alla poetessa svizzero tedesca  Mariella  Mehr in occasione della pubblicazione nella collana bianca dell'Einaudi di una antologia delle sue poesie.  Quasi nello stesso periodo la città di Berna le ha concesso un vitalizio "per permetterle di continuare a scrivere" ( la Mehr è oggi considerata una delle voci più alte della poesia tedesca degli ultimi cent'anni).
Al di là della scoperta di una nuova autrice la cosa è interessante perché la Mehr è una zingara Rom.
Una Rom che venne strappata bambina  alla sua famiglia e affidata ad una famiglia svizzera che la educasse al "decoro" locale. ( carini gli Svizzeri non pasticcioni e corrotti come noi ).
La sua poesia non tratta però di questi temi su cui lei ha scritto una autobiografia (edita in Italia da Effigie). Parla in modo, per così dire,  assoluto del dolore e della morte ( e curiosamente della paura dei lupi) tanto da essere stata paragonata a Paul Celan e a Sylvia Plath.
Peraltro - lei spiega nell'intervista -  il suo legame  particolare con Celan risale all'adolescenza  ed è dovuto sia al fatto che è anche lei,  in parte,  di origine ebraica sia dalla lettura adolescenziale del poeta ebreo tedesco , consigliatole dal suo compagno di allora (di trent'anni più vecchio di lei),  che era a sua volta ebreo e reduce da Dachau. Insomma una che non si è fatta mancar niente. La raccolta si intitola "Ognuno incatenato alla sua ora".
Mariella dice molte cose interessanti nell'intervista e ricorda il fatto che i Rom hanno portato in Europa gran parte della cultura indiana. La musica dei Rom, ad esempio,  viene dall'India.
Già la musica.
Nel numero di Musica jazz di novembre, in occasione della pubblicazione di un cofanetto di 10 CD con l'integrale delle incisioni in studio, c'è un lungo saggio su uno dei grandi musicisti del '900: il chitarrista belga e zingaro sinti Django Rehinardt. L'artista che ha rivoluzionato, anche prima degli americani, l'improvvisazione chitarristica  e ha per primo indicato una sorta di "via europea" al Jazz. E Django, anche se magari non lo sapete, lo conoscete tutti. Sia lui che il cosiddetto jazz manouche (assai di moda anche a Rovigo) sono imprescindibili per qualunque  colonna sonora che voglia evocare la Parigi degli anni tra il 30 e il 40. Anche se, secondo qualcuno, Django è, ancor di più, il perfetto evocatore della Roma liberata dai fascisti (mica vero, come stiamo imparando in questi giorni e come da tempo hanno imparato, tra gli altri, propri gli zingari di Roma) e festante del 1949.
Se, a forza di sentirmene  blaterare, vi è venuta una qualche curiosità per il Jazz vi consiglio un bel libro che:
a) potrebbe essere una buona guida ad una prima discografia di base (ma anche a qualche ascolto su you tube);
b) è, comunque, divertente e bello da vedere e da leggere perché tra un jazz e l'altro parla anche  di tutto un po'.
Si tratta di   "Ritratti in jazz" di Murakami Haruki.   Il libro è composto da cinquantacinque schede che, a partire dal ritratto di un musicista dipinto dall'artista Wada Makoto, commentano un disco storico. Ogni scheda, nelle mani di Murakami, diventa un piccolo racconto, un frammento di memoria autobiografica o il fulmineo ritratto di un artista, di un'epoca.
La cosa buffa è che Wada Makoto ha scoperto il jazz da adolescente nello stesso modo in cui l'ho scoperto io, vedendo il film "Venere e il professore" di Howard Hawks con, ahime, Danny Kaye  ma anche con Louis Armstrong, Benny Goodman, Lionel Hampton ecc. ecc. E, inoltre, io ho fatto anche il giro al contrario. Ho scoperto Murakami (e naturalmente Makoto che è un grande disegnatore) leggendo il libro in questione. 
In ogni caso uno dei ritratti più belli del libro è proprio quello di Django di cui viene ricordata una incisione dal vivo, con il violinista  Stephane Grappelli, fatta da un amatore in un club di Roma nel 1949. E questo, questo swing  è, per il giapponese Murakami, la colonna sonora dell'Europa felice e piena di aspettative del dopoguerra. Il CD è intitolato "Djangology".
Restiamo in una Europa ancora più felice, quella degli anni prima della crisi del '29, anzi precisamente del 1928 , prima a Berlino, in un kabarett, dove appare Ute Lemper travestita da Marlene Dietrich, poi in Costa Azzurra accompagnati da "Do you something to me " di Cole Porter. Parlo del già ricordato "Magic in the Moonlight" ultimo film di Woody Allen che è quasi impalpabile ma molto, molto carino. Sembra di vedere una nuvola.
Peraltro per Woody, che ha scritto le note di copertina di una delle sue tante antologie, Django  è stato il chitarrista più grande di tutti i tempi. E gli ha pure dedicato, anche se indirettamente , uno dei suoi film più belli degli anni '90 "Accordi e disaccordi".
Django divenne famoso con un gruppo, le Quintet dell'hot club de France, di soli strumenti a corda a Parigi negli anni '30 ma, come dicevo, era un sinti nato in Belgio.
Jazz e Belgio, quindi?  Ma naturalmente.
La settimana scorsa su Il Manifesto è uscito un lungo articolo accompagnato da una altrettanto lunga intervista al cantante belga David Linx che recensiva un CD dell'anno scorso intitolato "A Different Porgy & Another Bess" . Si tratta di una rilettura per due voci e orchestra jazz dell'immortale opera di George e Ira Gershwin "Porgy and Bess".
Sarebbe tutto molto lungo da spiegare. Mi limito a dire che l'opera - uno dei vertici del teatro musicale del '900 - al di là del valore musicale indiscutibile è sempre stata, giustamente, accusata, pur avendo un cast tutto di neri,  di razzismo, per la quantità di cliché, a partire dall'americano messo loro in bocca (tipo "badrone" per capirci), con cui i neri sono raccontati. 
La cosa interessante è che, nonostante questo, è stata fatta, in qualche modo propria anche dagli artisti di colore e dai jazzisti. Cito per tutte le versioni degli anni '50, quella  di Miles Davis e Gil Evans (solo strumentale) e quella, anche cantata, di Louis Armstrong e Ella Fitzgerald.
L'operazione che fa David Linx è quella di un aggiornamento dei testi delle canzoni, riportate ad un americano corretto, una accentuazione della drammaticità della storia, anche attraverso l’interpretazione vocale e  un nuovo arrangiamento  della parte musicale con l'inserimento di ritmiche moderne, a tratti  funky in alcuni passaggi, e l'uso di strumenti anche elettrici. L'operazione è pienamente riuscita,  l'opera ci appare come rinfrescata.
Ma la cosa che più mi ha colpito è la storia di Linx  che racconta nell’intervista  la sua "legittimazione" ad intervenire.
Linx è figlio di un operaio belga ed è nato in una famiglia assai modesta  piena di fratelli e sorelle. Un bel momento che fa, però, il padre? Pianta il lavoro e fonda la Maison du Jazz belga e il piccolo David cresce sulle ginocchia del fior fiore dei jazzisti afroamericani di passaggio per Bruxelles. A ciò va  aggiunto che a 18 anni va a vivere a Parigi, fino alla morte di lui, con  il grande scrittore  afroamerciano espatriato (comunista e omosessuale) James Baldwin anche lui un fecondo grumo di contraddizioni, conoscitore finissimo della cultura, soprattutto poetica, bianca americana e non solo.
Proprio dalle discussioni con Baldwin e Miles Davis gli nasce l’idea di una rilettura “corretta” di “Porgy and Bess”
David Linx è belga e fa Porgy. E Bess? La interpreta una cantante portoghese, una delle grandi voci  del jazz di oggi, Maria Joao. L'orchestra è la Brussels Jazz Orchestra. La globalizzazione, ogni tanto, mi piace molto.
Last but non least la copertina del CD,  che è bellissima. Devo dire che, anche riportata in bianco e nero sul giornale, è la prima cosa che mi ha attratto. Eccola qui, a colori   

 

Ci sono, credo per tutti,  delle affinità elettive, delle passioni immediate e indiscutibili e non spiegabili,  delle sintonie misteriose. Io, se ho incominciato ad apprezzare la fotografia, a studiarla e un po' anche a farla è per l'ammirazione incondizionata, la sintonia immediata, con le immagini (a cui, sia chiaro non mi sono mai nemmeno una volta anche lontanamente avvicinato) di uno dei grandi fotografi del '900 che conobbi, assolutamente per caso,  per merito di una piccola e perfetta mostra organizzata ai tempi del (mio) liceo dall'Accademia dei Concordi.
Parlo di Werner Bischof, l’autore della foto del CD,  fotografo svizzero nato nel 1916 e morto in un incidente automobilistico sulle Ande nel 1954. Bischof che aveva iniziato, ed era già famoso, come fotografo di moda e pubblicità in Svizzera, subito dopo la II guerra mondiale, sconvolto dalle immagini fotografiche della guerra,  si dedicò integralmente al reportage giornalistico per Life illustrando il dopoguerra in Europa: Francia, Germania,  Italia, Polonia, Ungheria, Inghilterra. Subito dopo  la decolonizzazione in India , in Cina, in Corea, nel Sud Est asiatico. Poi il Giappone e, dopo una lunga preparazione,  intraprese un viaggio nelle Americhe. A Nord, New York, la foto che sto commentando è stata fatta a New York nel 1953 e si intitola “Canyon stradale”, Chicago, San Francisco e poi  a Sud, Messico e Perù dove ebbe l'incidente.
Non c'è lo spazio per parlarne più a lungo ma, insomma, diciamo che quello che mi colpì allora e ha sempre continuato a colpirmi è l'estrema pulizia ed eleganza delle immagini, la mancanza di ogni effettismo, unite ad un evidente amore per l'uomo (a tutte le età. Sono straordinari i suoi ritratti di bambini di tutti i paesi che ha visitato), ad una immediata  empatia, sia nei momenti più tragici che in quelli più sereni. Unita ad  una passione per il paesaggio, sia naturale che urbano, anch'esso in qualche modo sempre visto in una sorta di armonia con l'umanità. Un grande umanista e, lo capiamo meglio oggi, un grande utopista.
Forse da quest'altra fotografia, fatta A Cuzco, che è la sua più famosa e una delle ultime, si riesce a capire ancora meglio quello che voglio dire         


La grande sorpresa, che ho appreso indirettamente dal Cd,  è che, oltre che un maestro del bianco e nero come tutti fotografi della sua generazione, è stato anche un grande maestro del colore. Mantenendo anche a colori le stesse caratteristiche di eleganza e di meraviglia di fronte alla bellezza, comunque, del mondo e della vita. E alla capacità, della bellezza,  di manifestarsi – il senso dell’epifania -  anche nelle situazioni più impensate.
Per chiudere un consiglio. Se vi piacciono le fotografie andate a cercarle in rete, ad esempio nel sito dell’Agenzia Magnum (di cui Bishop fu uno dei fondatori) dove sono riprodotte in dimensioni più giuste.
Poi due considerazioni. Due grandi artisti svizzeri che mi fanno venire in mente in aggiunta Paul Klee, Giacometti, il dadismo, Hans Arp e la battuta di Orson Welles- Harry Lime sul fatto che gli svizzeri in 500 anni di storia hanno creato solo gli orologi a cucù. Anche i geni a volte sparano cazzate.
Seconda considerazione. Siamo passati dalla Svizzera alla Svizzera passando per: Parigi, la Costa azzurra, Kioto, Roma,  il Belgio, Broadway, Harlem e Lisbona. Che meraviglia, a volte, la globalizzazione, e la gente e anche internet. In fondo questo di/vagare è la grande lezione degli Zingari.
Buona settimana.   

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