domenica 5 febbraio 2017

Amori londinesi, Charles Dickens

C’è stato un tempo in cui Charles Dickens, prima di inaugurare la sua carriera di romanziere col Circolo Pickwick, scriveva per i giornali di Londra sotto lo pseudonimo di «Boz». Il risultato di questa attività di reporter non doveva sembrare del tutto trascurabile, dal momento che lo stesso Dickens decise di servirsene per consolidare l’astro nascente della propria fama. Mentre già cominciava a riscuotere i primi strepitosi successi, non solo con Pickwick, ma anche grazie a Oliver Twist e Nicholas Nickleby, lo scrittore si impegnò infatti a raccogliere gli svariati «bozzetti» giornalistici che costituivano i primi «tentativi» della sua «professione», riproponendoli a più riprese, fra il 1836 e il 1839, nei due volumi degli Sketches by Boz.
A richiamare l’attenzione su questa fase di apprendistato, finora ignorata dall’editoria italiana, interviene oggi Amori londinesi (Mattioli 1885, pp. 238, euro > 16,90) ultimo volume di una trilogia che incorpora anche I Londinesi e Il grande romanzo di Londra. Assieme alla prima traduzione inedita degli Sketches, la trilogia ci propone subito una piccola sfida: bisogna riconoscere che i materiali finalmente messi a nostra disposizione si rifiutano di essere trattati come un repertorio di motivi sviluppati in seguito da Dickens, su più vasta scala, nei romanzi di nostra conoscenza. Poiché «Boz» ci invita a prendere in considerazione i restrittivi vincoli di spazio a cui sono soggetti i suoi «schizzi», incommensurabili al romanzo, dovremo limitarci a intendere questi testi di varia natura come un atto inaugurale. I bozzetti ci appariranno, a questi patti, come la prima occasione in cui Dickens si presenta sulla scena, seppure sotto mentite spoglie, per reclamare a gran voce i diritti i e poteri di un mago incantatore determinato a esibire sortilegi di prodigiosa affabulazione.
Non lasciamoci innanzitutto depistare dal travestimento di Boz, che fin dal Grande romanzo di Londra si presenta nei panni dell’inviato speciale. Non appena il suo sguardo di «osservatore» girovago si posa su un anfratto qualsiasi della città, il reporter in perlustrazione cede il passo allo stregone illusionista, che dopo essersi issato su un ideale palcoscenico si appresta a evocare l’incantesimo della vita quotidiana. In questo modo, sull’immaginario telone bianco allestito alle spalle di Boz, vediamo rinascere sobborghi, piazze e bassifondi, destinati a poco a poco a popolarsi di «tipi» caratteristici della low e della middle-class altrimenti banditi dai territori della letteratura romanzesca.
Sono proprio le epifanie di queste figure «tipiche», ancora sprovviste di una storia, eppure animate da un frenetico andirivieni di dialoghi e situazioni, che ci spingono a chiederci come Boz riesca a generare la magia di una verosimiglianza tanto portentosa.
Essenziale al successo dell’operazione risulta, fin da ora, l’attitudine teatrale che Dickens riesumerà anche quando negli anni successivi salirà sul podio in prima persona, durante le pubbliche letture delle sue opere più amate. È vero però che la teatralità, nel caso di Boz, rappresenta una risorsa preziosa e al tempo stesso un infido alleato. La mania di protagonismo, da una parte, consente infatti al giornalista di balzare agli occhi del pubblico e di manovrarlo come un regista incontrastato nello spettacolo illusionistico dei bozzetti; dall’altra, l’incontenibile esuberanza del narratore sulla scena lo conduce a esporsi troppo agli sguardi, alla stregua di un prestigiatore che non sa celare fino in fondo i trucchi della propria arte.
Non è difficile accorgersi che per fomentare l’illusione Boz ricorre di preferenza al «presente storico», uno dei più importanti «costituenti» – secondo Harald Weinrich – della narrativa «eccitante», molto più efficace del passato remoto nella simulazione di scene in presa diretta. Insistenti risultano poi gli inviti a partecipare ai sopralluoghi dell’incantatore e a concentrare gli sguardi sui dettagli da lui stabiliti, per poi «immaginare» il fondale dei suoi scenari. È come se fossimo istigati, pagina dopo pagina, a seguire le istruzioni di un ipnotista che ci costringe a cadere nella trance di una finzione meticolosamente organizzata.
Ossessivo, a questo proposito, diventa il desiderio di suddividere in categorie precise la popolazione dell’universo immaginato, che finisce per costituire, come in una lanterna magica, il riflesso ingigantito di una realtà sociale condivisa e verificabile dagli ascoltatori. La mania del catalogo si fa talmente invasiva, soprattutto negli Amori londinesi, da spingerci stavolta a domandare da quali fonti Boz potesse attingere tanta sapienza e a quale scopo si ingegnasse a riversarla sui suoi primi lettori.
Sarebbe riduttivo attribuire al bozzettista una vocazione di denuncia sociologica, così come risulterebbe fuorviante scorgere dietro la sua maschera la fisionomia del romanziere o dello storico. Perché Boz comprende e al tempo stesso riesce a superare tutte queste figure. E se per un verso sembra condividere alcuni dei loro protocolli, per l’altro si affretta a specificare che i suoi schizzi racchiudono maggior vita rispetto alle documentazioni degli storici, mentre si divertono a scimmiottare le convenzionali trovate dei romanzieri. Semmai, Boz può essere equiparato a uno sciamano dei tempi moderni, a cui basta un oggetto dimenticato in una vetrina di cianfrusaglie per evocare l’universo sepolto dietro le loro superfici.
Il suo sapere dipende – come osservava Curtius a proposito di Balzac – da una «seconda vista» che segue le piste della «intuizione divinatoria». E non è raro avere l’impressione che nel corso delle sue performance Boz si ritrovi a contatto coi fantasmi, in procinto di scatenare forze dell’occulto in una singolare seduta spiritica. Anche per questo, a detta di Chesterton, tanto i personaggi di Dickens quanto le figure dei suoi bozzetti sembrano godere di una «divina pre-esistenza», che li porta ad esistere «prima ancora che lo stesso Dickens ne abbia sentito parlare». Il risultato, in ogni caso, coincide con qualcosa di inclassificabile, eccessivo e debordante, che finisce per travolgere ogni ostacolo sul suo percorso. Lo testimoniano meglio di tutti i racconti del secondo volume dei Londinesi, dove lo scioglimento precipita sui lettori all’improvviso e senza preparazione, quasi a scorciare una narrazione altrimenti pronta a moltiplicarsi fino ad esplodere.
Non è allora un caso se il soprannome Boz deriva – secondo quanto Dickens testimonia nella prefazione a Pickwick – dalla storpiatura di «Moses»: la sua parola e il suo atteggiamento appartengono a qualcuno che è deciso ad «aprire le acque», a farsi strada a ogni costo, ad abbattere i confini e le barriere di genere. Anche a prezzo di sarcasmi, buffonerie clownesche, smargiassate da imbonitore che spesso si incuneano nelle pagine della «trilogia» conducendole alla farsa, senza riuscire a nascondere le trame di un progetto utilitaristico.
Esemplare, in questo senso, è l’ultimo volume degli Amori londinesi, che in aperta ostilità con la «diabolica» misoginia di un libello in circolazione si impegna a passare in rassegna i tratti fisiognomici, i tic e le pecche caratteriali di ogni categoria del genere maschile.
Al pubblico delle sue lettrici, Boz offre una galleria di identikit, assemblati e messi in situazione attraverso una sorta di manuale assertivo e derisorio, con cui orientarsi nella scelta del perfetto pretendente. Solo al termine della kermesse il narratore si decide a proporsi come il «giovane» fidanzato ideale, svelandosi come rivale diretto di tutti quei partiti che la sua scrittura si è affrettata a distruggere e mettere in ridicolo. Ma allora, il piano di Boz può essere considerato altrettanto «diabolico» di quello del suo misogino predecessore: dietro una nobile vocazione sociologica, gli Amori londinesi non fanno che nascondere una trappola utilitaristica e premeditata, allo scopo di puntare i riflettori della narrazione sul loro artefice.
Allo stesso modo, l’ombra del sospetto finisce per gravitare su tutti gli altri bozzetti della raccolta. Con questi schizzi, Dickens non ha voluto soltanto educare i lettori alla dirompente esuberanza dei suoi futuri romanzi: ha cercato anche di sondare la resistenza dei suoi ascoltatori, di assicurarseli e di pilotare il loro gusto, dirigendo le luci della ribalta sulla propria figura. In attesa di varcare la terra del romanzo, lo scrittore usa Moses – e Boz – per spianarsi il cammino.
[Ivan Tassim 08/02/2017]

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