lunedì 2 gennaio 2017

Nii Ayikwei Parkes, Tail of the Blue Bird

Poeta, slam performer, editore, melomane. Nii Ayikwei Parkes si destreggia tra una doppia cultura ghanese e inglese, un padre jazzista e consulente industriale, che lo lasciava da bimbo solo sulle piazze dei paesini rurali, dove ascoltava storie e racconti tradizionali. Padroneggia quattro lingue, tra cui i dialetti Twi e Fante e l’inglese, ma usa il pidgin (lingua vernacolare dell’Africa Occidentale) come lingua a sé. L’humour è la caratteristica della sua scrittura acuta e palpitante come un rap. Dopo aver preferito la scrittura (alle botte), studiato scienze e girato in lungo e largo l’Inghilterra con le sue performance di slam poetry, si mette alla prova con la finzione e Tail of the Blue Bird, il suo primo romanzo, finalista al Commonwealth Book Prize, uscirà a breve in Italia per Stampa Alternativa. L’abbiamo incontrato nella primavera scorsa nel suo rifugio italiano, nello splendido castello-residenza di Civitella Ranieri per artisti internazionali, dove scrittori, scultori, pittori, poeti, e coreografi, trovano il silenzio e la fantasia delle contaminazioni con gli altri per creare.
Come e quando hai iniziato a scrivere?
Sono un sognatore, adoro le storie e raccontarle, in mezzo alla gente. Sono cresciuto in Ghana, dove da bambino trascorrevo il tempo a giocare a calcio, ma a differenza degli altri ragazzi, dopo la partita tornavo a casa e leggevo fino al calare del sole. Sono cresciuto a calcio e racconti. Avevo un carattere terribile, ero manesco, facevo di continuo a pugni a scuola. Mio padre ha allora fatto un patto con me, costringendomi a scrivere sui ragazzi che mi davano noia; se dopo averli descritti, continuavo a voler litigare, allora avrebbe scelto la mia parte. Ed è cosi che ho iniziato a scrivere! Ho scoperto che mi piaceva di più scrivere che fare a botte. A dieci anni circa, ho fatto leggere qualcosa a mio padre che mi ha detto: «è poesia»! Era la prima volta che potevo nominare quello che combinavo.
Qual è stata la tua formazione in Ghana?
Durante le medie, un compagno di classe che usciva contemporaneamente con tre ragazze, si era accorto che avevamo la stessa calligrafia, mi chiese di scrivere bigliettini d’amore per le sue tresche. Man mano mi sono messo a scriverne pure il contenuto, e in cambio di soldi sono finito per scrivere le lettere d’amore dei miei coetani! Poi ho scritto alcuni poesie per l’Università, durante un breve soggiorno Erasmus in Francia, e a Manchester. Con la morte di mio padre, non sentivo più nulla, scrivere mi rendeva vivo. Di ritorno in Ghana, ho iniziato a lavorare come scienziato per una grande multinazionale, ma mi annoiavo, mi perturbava la mancanza di etica, quindi dopo il lavoro scrivevo ore per sentirmi meglio. Alcuni editori inglesi hanno risposto alle mie prime poesie, ho deciso di emigrare in Gran Bretagna; lì ho svolto tutti i mestieri per sopravvivere, poetry slam, numerose performance che mi permettevano di andare in giro. Poi Courttia Newland mi chiese una short-fiction e me la ha rimandata indietro completamente bocciata: per sfida decisi di padroneggiare quel genere.
Il personaggio di Kayo in «Tail of the Blue Bird» sembra autobiografico. Come vivi questa dualità tra cultura ghanese e cultura coloniale?
Non ho mai vissuto quel conflitto, che esiste in tanti paesi con un passato coloniale e dove due culture vivono una accanto all’altra. Ho avuto genitori educati al livello universitario, da sempre siamo stati immersi in questa doppia cultura. Il personaggio di Kayo però impersonifica il dilemma della mia generazione in Africa Occidentale, che avendo conosciuto in primis il modello di educazione coloniale, ha avuto problemi nell’incontro con la cultura tradizionale. Ma è un conflitto interessante, se non scegli una parte o respingi l’altra, hai una possibilità di maggiore compassione e empatia verso il mondo.
Cosa simbolizza la coda dell’uccello azzurro che la donna insegue all’inizio del tuo racconto?
Nasco come poeta e la mia scrittura è ricca di metafore. L’uccello azzurro è un bee-eater un uccello che mangia le mosche, che consuma quello che ferisce gli altri. La storia inizia con questa immagine di una donna che insegue l’uccello. Senza di lui, non ci sarebbe la storia, è l’eterna questione filosofica dell’origine. E poi è una piuma, blu come l’inchiostro: ci sono tanti livelli di analogia con la scrittura. Devo divertirmi io per primo mentre scrivo.
E chi è il vecchio Yao Poku, quel vecchio del paese che conosce le regole invisibili del mondo rurale?
Il vecchio Yao Poku rappresenta una verità nella verità. La storia del paese è ispirata ad un fatto di cronaca, la scoperta alcuni anni fa di una comunità indigena totalmente isolata in Amazzonia, poi annessa al Brasile, pensavo a questi indigeni che di colpo sarebbero diventati soggetti di un passato portoghese senza conoscere la propria storia. La colonizzazione si diffondeva spesso solo in superficie, sulle coste e non nell’interno dei paesi colonizzati. L’idea di essere parte di un tutto senza veramente esserne parte, mi ha ispirato la storia del villaggio di Sonokrom. Yao Poku è la voce di quel paese, che ha le proprie regole, non rigetta il cambiamento ma l’imposizione dall’esterno, come invece vogliono fare i poliziotti e la scientifica.
Con quale effetto voluto usi il Pidgin?
Per riflettere la città, le strade di Accra, rendere il suono della città. Passiamo costantamente da una lingua all’altra, qualche volta usiamo fino a quattro lingue diverse: il pidgin fa parte delle nostre esistenze. Se scrivi romanzi e devi essere fedele alla realtà, o se ci vuoi conoscere devi leggere pidgin. La scrittura poi è in primis musica, guida la scelta delle parole; di sicuro la mia mente è diversa da quella di uno educato a Oxford e che parla solo academic English!
Si sente un ritmo molto particolare nella tua scrittura, ascolti musica mentre scrivi?
Si sempre. Questi giorni mentre scrivo una storia ambientata su un’isola nei Caraibi, ascolto rumba e salsa cubana. Per la mia prima fiction Tail of a blue bird, ascoltavo il musicista Egya Koo Nimo, che suona la chitarra tradizionale sopranominata «Palm wine guitar». Faccio anche molto uso di immagini. Sul muro del mio studio campeggia la foto inventata dell’isola imaginaria. Ho anche insegnato durante il mio servizio militare in un paese del profondo Nord Ghana. Tutto quello che evoca è riusato.
Cosa pensi della creolizzazione?
Succede, semplicemente, come nella vita. La lingua si trasforma prendendo in prestito parole da altre lingue. Ho solo messo giù questa lingua, il pidgin, che è molto vitale e evolve costantamente. Quando torni in Ghana ci vuole sempre un momento di adattamento, perché nuove parole sono comparse e le devi imparare. É fantastico, svela la trasformazione costante. È gioia, la vita è breve, la gioia può essere minuscola come scoprire una nuova parola.
Ti riconosci nella definizione di «Afropolitan» coniata da Taiye Selasi?
È un concetto interessante ma errato, anche se non ho alcuna forma di rifiuto emotivo del concetto. Sottintenderebbe che se sei africano non sei cosmopolita. In realtà l’Africa è cosmopolita dalle origini e ha il suo proprio melting pot. Accra per esempio è una città di mercanti, traders, somali, ucraini, cinesi, indiani, un mio antenato era persino scozzese. Prima della colonizzazione potorghese e olandese la cultura ashanti, regnava da una una costa all’altra fino al MedioOriente. Per me quindi è superfluo aggiungere la parola «afro» a «cosmopolita» e se si vuole limitare il cosmopolitismo all’Ovest è un loro problema. La mia realtà è diversa. Sono cosmopolita non perché «emigrato» ma perché sono di Accra!
Il razzismo è di ritorno al livello globale, cosa ne pensi?
È diffuso da politici che cercano capri espiatori. Dipende dalla idea che uno si fa della vita, se pensi che la devi controllare. Poi c’è un’escalation esasperata dovuta alla crisi economica. L’esito dipenderà da quanti esprimeranno violenza o meno.
L’odierna gestione della crisi migratoria non rivela un subdolo neoloconialismo?
Si è tremendo. Ma la nostra discussione è possibile solo perché c’è stato un colonialismo precedente gli accordi economici, come i Bank loans, che costringono i paesi africani a negoziare. Ogni volta che incontro migranti, mi dicono che vorrebbero migrare per cercare quello di cui hanno bisogno e poi tornare a casa (come d’altronde altri Europei che emigrano in Uk per lavoro). Ma se ostacoli i migranti africani e li combatti durante il viaggio, gli fai perdere troppo, il prezzo pagato è allora troppo alto, per tornare indietro con meno di quello che hanno perso. Allora li costringi a rimanere in Europa, li intrappoli. Quei politici contribuiscono alla stessa situazione che vorrebbero combattere.
Come mai hai scelto la forma del giallo in «Tail of the blue bird»?
Nell’infanzia leggevo tanta pulp fiction, avventure, escapade, gang, sex. Più avanti, ho letto tanti gialli. Volevo scegliere questa cornice per rendere omaggio, a quel genere e alla mia città. Kayo non esisteva all’inizio. Ho cercato di non fare annoiare il lettore. Il giallo dà la struttura ma anche realismo su Accra, un senso di musica, cibo, ecc… io amo divertirmi. Devo ridere. In arte, l’humour è sottostimato come una delle qualità fra le forme artistiche. Mentre in realtà esso permette a delle idee di viaggiare sotto nella corrente: l’humour per me è vitale. Anche nella più cruda scena di morte, puoi scovarlo. Persino in un funerale, dovresti cercarlo nonostante la perdita di una persona cara. Se non ce l’hai nella vita, la depressione ti aspetta.
[Flore Murard Yovanovitch 31/12/2016]

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