lunedì 20 giugno 2016

Il colore della scrittura, Charlotte Brontë

Il duecentenario della scrittrice di «Jane Eyre» viene celebrato da una serie di libri, mentre la National Portrait di Londra le dedica una mostra con acquerelli che dipinse lei stessa, pagine di diari, lettere e opere della sua infanzia.
«Aveva i capelli di un castano luminoso che cadevano sulle spalle in riccioli pieni di grazia e occhi di un blu violetto, con sopracciglia marroni ben disegnate». È la descrizione di Anne Brontë fatta dall’amica di Charlotte, Ellen Nussey (la stessa con cui la scrittrice scambiò centinaia di lettere e che fu la prima ad essere messa al corrente della scomparsa dell’autrice di Jane Eyre). E quella sorella minore – che dette alle stampe Agnes Grey – venne dipinta rispettando in tutto questi canoni di bellezza. Appare proprio così nell’ovale esposto alla National Portrait di Londra la giovanissima Anne, intorno agli anni Trenta dell’Ottocento: è un acquerello, uno dei tanti con cui Charlotte Brontë si dilettava, copiando dai maestri paesaggi o scene mitologiche e facendo posare conoscenti e famigliari. Da principio, infatti, lei voleva diventare un’artista del pennello e condivideva con suo fratello Branwell la passione per la pittura e per le visite ai musei.
Quest’ultimo, anzi, aspirava a diventare un ritrattista di professione: la piccola e preziosissima mostra che si può visitare nella sala 24 della National Portrait di Londra (in omaggio al duecentenario della scrittrice) ruota tutta intorno a un quadro eccezionale per il suo valore documentario. È il dipinto che Branwell fece a diciassette anni, intorno al 1834, con le tre sorelle in posa e al centro, una grande macchia di colore che, ai raggi ultravioletti, si è rivelata essere il residuo di una cancellazione, un «pentimento» in cui l’autore ha tagliato via se stesso da quell’immagine di famiglia. Noto agli studiosi perché ripreso nella celebre biografia che Elisabeth Gaskell dedicò a Charlotte Brontë per rinverdire la sua reputazione – affinché il ricordo della sua figura non si fermasse al suo ruolo di istitutrice presso case di campagna – e farne una figura potente e tragica, è il fulcro della mostra: è il solo ritratto sopravvissuto probabilmente a molti disegni realizzati in quegli anni e le sue condizioni non buone sono dovute al fatto che per cinquant’anni è rimasto piegato, nell’armadio della fattoria dove visse il vedovo di Charlotte, il reverendo Arthur B. Nicholls con la sua seconda moglie. Fu lei, Mary Anne, a scovarlo nel 1914 e la National Portrait lo acquistò.
Il comitato scientifico del museo decise poi di non restaurarlo per lasciare visibili le tracce della sua particolare storia. Insieme a quel dipinto, nello stesso armadio, venne ritrovato anche quello dell’altra sorella Anne (che troviamo nel percorso espositivo). Il volto di Charlotte Brontë lo conosciamo anche grazie all’opera di George Richmond, fatto su commissione dell’editore Smith nel 1850: la leggenda vuole che lei fuggisse in lacrime di fronte alla richiesta del pittore di cambiare pettinatura, sciogliendo i capelli per levarsi di dosso quell’aria ammuffita e da vecchia.


Un acquerello della scrittrice esposto in mostra

La rassegna, visitabile con entrata gratuita fino al 14 agosto, si presenta come una imperdibile occasione per chi non può spingersi fino a l villaggio di Haworth, nello Yorkshire, dove la famiglia Brontë visse e dove oggi, nella loro casa, c’è il Parsonage museum. Molti degli oggetti che raccontano la vita privata e l’infanzia della scrittrice provengono da lì e sono concessi molto raramente in prestito. Nelle teche e sulle pareti sono narrate due storie che si intrecciano. C’è quella pubblica e letteraria che si dispiega attraverso le prime edizioni del romanzo Jane Eyre, della sua biografia scritta da Gaskell, con le lettere più «professionali» e i ritratti dei personaggi di riferimento nella costellazione «Brontë», da Byron al duca di Wellington, l’eroe che sconfisse Napolone a Waterloo fino al critico Lewes. George Henry Lewes, influente critico e giornalista, ebbe uno scambio epistolare tempestoso, nel corso degli anni, con la scrittrice: la redarguì per le sue produzioni letterarie «melodrammatiche» (la sua stella era Jane Austen) e disse anche che per le donne era meglio occuparsi di gravidanze. Lei non si scoraggiò e più volte rispose per le rime.

Poi, c’è il secondo racconto che si snoda in mostra insinuandosi tra i ventisei oggetti appartenuti a Charlotte Brontë. Pagine di diario, lettere più intime, ritratti eseguiti a gessetto delle amiche, un paio di stivaletti di stoffa che era solita indossare. Bellissimi, infine, i libri lillipuziani con pagine cucite a mano, scritti fitti e corredati da allegri disegni. Li creavano tutti insieme a Haworth, e soprattutto Charlotte con Branwell. I due avevano inventato un regno fantastico, Glasstown, scrivevano le avventure dei loro personaggi e ne illustravano le storie. La loro era già una coppia di smaliziati fumettisti.
[ Arianna di Genova 20/06/2016]

Nessun commento:

Commenti

il 12/08 SR ha commentato Non credo che D'Avenia possa far parte del nostro blog. Certo i suoi libri sono best-sellers tra gli adolescenti, e probabilmente hanno il merito di avviare qualche giovane alla lettura, ma la banalità delle situazioni e del linguaggio non permettono di considerare questi testi letteratura. Diciamo che sono testi "di servizio", nella migliore delle ipotesi. su Prossimamente
il 14/05 SR ha commentato Purtroppo J.K.J. non sembra più funzionare con le ultime generazioni: un tentativo di leggere a scuola Three Men In a Boat è finito miseramente in noia. I ragazzi non capivano cosa c'era da ridere e io non capivo perché non capivano. Tristissimo. Jerome per me è finito in quell'armadio dove tengo gli autori speciali che voglio proteggere dagli studenti... su Jerome K. Jerome, fare ridere l’uomo moderno, spaventato
il 29/02 Ida ha commentato A proposito di classifiche: "Oggi se vai al cinema devi entrare a un’ora fissa, quando il film incomincia, e appena incomincia qualcuno ti prende per così dire per mano e ti dice cosa succede. Ai miei tempi si poteva entrare al cinema a ogni momento, voglio dire anche a metà dello spettacolo, si arrivava mentre stavano succedendo alcune cose e si cercava di capire che cosa era accaduto prima (poi, quando il film ricominciava dall’inizio, si vedeva se si era capito tutto bene - a parte il fatto che se il film ci era piaciuto si poteva restare e rivedere anche quello che si era già visto). Ecco, la vita è come un film dei tempi miei. Noi entriamo nella vita quando molte cose sono già successe, da centinaia di migliaia di anni, ed è importante apprendere quello che è accaduto prima che noi nascessimo; serve per capire meglio perché oggi succedono molte cose nuove." Anch'io,come U.ECO sono andata al cinema nel modo ricordato e quindi io amo ricordare e vorrei tanto poter fare liste di su Chi siamo
il 28/02 Ida ha commentato Grazie Roberta per aver riaperto il blog.Trovo che è un modo per uscire dalla solitudine delle letture personali.Scrivere e leggere accanto, trovo che è un bel modo per parlarci e parlarmi. su Chi siamo