domenica 19 giugno 2016

Acciaio contro acciaio, I. J. Singer

Quando arrivò al fatale appuntamento con l’industria nazista dello sterminio, la comunità ost-juden era già stata squassata e minata irreparabilmente nelle sue fondamenta dall’irruzione della Storia. La specificità eminente dell’ebraismo orientale era stata proprio l’aver costruito, più che nelle altre realtà della diaspora, una sorta di «patria» nell’esilio, fondata sulla consapevolezza dell’esilio e sull’esaltazione della propria radicale alterità. Gli ebrei orientali avevano eretto siepi più alte delle altre comunità ebraiche nel mondo per difendersi dal flusso minaccioso della Storia: non si poteva evitare di subirlo, quando si presentava sotto forma di pogrom o di arruolamento forzato nell’esercito zarista, ma si trattava sempre di un fenomeno esterno, non diverso dalle calamità naturali. Non era e non doveva essere partecipato.
A cavallo tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del secolo seguente, quella barriera iniziò a cedere. I racconti del ciclo Taiwe il lattivendolo di Shalom Aleichem, l’opera più significativa della letteratura yiddish prima dei fratelli Singer, descrivono appunto l’impatto della Storia sulla comunità chiusa ost-juden e l’effetto di progressiva dissoluzione che ne consegue. Taiwe fu pubblicato nel 1894. Un anno prima era nato Israel Joshua Singer, lo scrittore che avrebbe poi raccontato in tutta la sua opera lo sfaldamento di quel mondo.
Israel era il più adatto ad assolvere a quel compito. Scriveva, a differenza del suo grande fratello, prima della Shoah, dunque senza essere condizionato dalla consapevolezza di quale sarebbe stata la tragica sorte degli ebrei orientali. Il rifiuto della cutltura nella quale era nato e cresciuto lo aveva coinvolto direttamente: l’insofferenza e la conflittualità nei confronti delle corti rabbiniche, della mistica degli hassidim e della rigida chiusura della cultura ost-juden sono il cuore dell’autobiografia uscita postuma nel 1946, pubblicata in Italia da Adelphi l’anno scorso, La pecora nera.
A lungo e a torto considerato solo «il fratello di Isaac Bashevish», Israel Singer, nonostante le somiglianze superficiali, è un autore molto distante dal fratello minore e per molti versi ne è anzi l’opposto. La sua poetica è del tutto scevra da aspetti fantastici o visionari, e non si affida mai alla lente deformante della nostalgia. È uno scrittore realista con robusta venatura epica, capace di delineare caratteri e fisionomie interiori con pochissimi tratti di penna ma riportando sempre, anche quando sembra raccontare solo saghe di famiglia, i percorsi dei suoi personaggi nel grande flusso di quella Storia che aveva travolto il mondo chiuso dello Shtetl.
Acciaio contro acciaio (Adelphi, «Biblioteca», pp. 240, euro 16.00) è il suo primo romanzo, pubblicato nel 1927 in yiddish. La traduttrice, Anna Linda Callow, ha compiuto una lavoro straordinario, partendo dalla traduzione inglese curata da Joseph Singer, figlio dell’autore, per poi confrontarla minuziosamente con l’originale yiddish per ripristinare e integrare almeno una parte dei tagli apportati dal curatore americano, il cui lavoro di editing mirava a snellire un testo giudicato altrimenti molto pesante. Il protagonista del romanzo è Binyamin Lerner, soldato dell’esercito zarista impegnato nella guerra mondiale, disertore non per viltà ma per incapacità di tenere a freno la lingua al cospetto dei superiori, operaio dopo l’occupazione tedesca di Varsavia, braccio destro di un miliardario filantropo che si è dato come missione la trasformazione di una moltitudine miserabile di rifugiati ebrei in armoniosa comunità di lavoratori, carcerato, rivoluzionario nella Pietroburgo d’Ottobre.
Ma lo stesso Lerner è solo un «personaggio principale». Vere protagoniste del romanzo sono le masse, che campeggiano praticamente in ogni pagina: flagellate dalla guerra, martoriate dall’occupazione tedesca, dalla fame e dalle epidemie, costrette a un lavoro tanto simile alla schiavitù da far quasi rimpiangere a Lerner le trincee, traversate da sussulti di coscienza collettiva che per farsi largo devono scontrarsi con l’ignoranza, le rivalità etniche, il razzismo, la diffidenza reciproca, il nodo scorsoio della tradizione, il terrore atavico dell’autorità.
La vicenda si snoda nei due anni centrali della Grande Guerra. Binyamin Lerner si ritrova disertore, più per caso e circostanze fortuite che per scelta, all’inizio del 1916. Lo lasciamo quando entra alla testa di una milizia operaia nel Palazzo d’Inverno, mentre l’Aurora cannoneggia Pietroburgo. Sono gli anni nei quali si verifica, sulla spinta di una guerra di proporzioni sino a quel momento inaudite, l’entrata in scena delle masse come protagoniste della Storia. Comincia lì il secolo breve, quello che nel bene e nel male sarà segnato e condizionato dal protagonismo delle masse sino a quel momento relegate sullo sfondo e condannate al mero ruolo della carne da cannone.
Il Singer del 1927 non è quello che dieci anni più tardi, deluso dalla Rivoluzione, scriverà A oriente del giardino dell’Eden, però non c’è nulla di oleografico o di ingenuamente superficiale nella sua visione delle masse. L’immagine che ne restituisce è colma di partecipazione ma impietosa: alla vicinanza e alla rabbia per le condizioni in cui sono tenute si accompagna sempre la percezione delle pulsioni minacciose che le agitano, la messa a fuoco lucida dei limiti che possono trasformarle in pericolo mortale. Anche per se stesse.
Tra il dissolvimento del tessuto sociale e culturale ebraico-orientale e l’acquisizione di protagonismo da parte delle masse il nesso è immediato. Il vento che spinge verso il centro della scena le moltitudini anonime è lo stesso che abbatte la siepe eretta dall’ebraismo orientale per impedire alla Storia di contaminarne la diversità. Proprio perché Singer ignora l’epilogo apocalittico della Shoah, nei suoi libri la fine dell’ebraismo orientale figura come riflesso parziale in grado di esaltare un sommovimento generale. Nella sua «separatezza», la vicenda particolare degli «ebrei dell’Est» funziona come traccia privilegiata per decodificare e interpretare il quadro complessivo.
A diffferenza che nei grandi romanzi successivi, in Acciaio contro Acciaio il tema della secolarizzazione e della conseguente disgregazione della comunità ebraica non è affrontato direttamente, né citato esplicitamente, pur rappresentando parte essenziale dell’insieme. Lo Shtetl è già alle spalle e Israel, tanto più in questa fase giovanile, è del tutto impermeabile al richiamo della sua mistica, che pervaderà invece l’opera di Isaac. Gli operai ebrei che lavorano a Varsavia sotto il comando tedesco sono una comunità etnica non diversa da quelle polacche e russe con cui dividono un lavoro massacrante. I miserabili rifugiati che Lerner, su mandato del miliardario e filantropo ebreo Aharon Lvovic, tenta di trasformare in comunità operosa e coesa sono e resteranno una ciurma ignorante, superstiziosa e infida.
Lerner, come prima di lui Aharon Lvovic, sono il prodotto più vitale della disgregazione dello Shtetl: energici, intraprendenti, divorati dalla necessità di fare, dall’urgenza di incidere sul mondo, ma anche soli e disancorati. Nonostante disponga di forza, intelligenza e orgoglio in quantità, Lerner non trova mai un controllo sulla propria esistenza. Finisce sempre in situazioni che non dipendono da una sua scelta: è disertore, operaio, educatore e rivoluzionario, sempre per caso. Una scialuppa senza ormeggio, in balia della tempesta della storia del ventesimo secolo.
[ Andrea Colombo 19/06/2016]

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