martedì 5 aprile 2016

Lo stupore contro la banalità

Uno dei libri che erano in scaletta e avremmo letto il prossimo mese, proposto da Silvia era  «L’uomo sulla bicicletta azzurra» di Lars Gustafsson

Ritratti. Lo scrittore-filosofo Lars Gustafsson, i cui romanzi sono tradotti in Italia da Iperborea, è morto sabato all'età di 80 anni. Ossessionato dal tema dell'identità del soggetto, fautore della meraviglia al posto della realtà, è autore di un ciclo americano ambientato in Texas, di «Morte di un apicultore» e «L’uomo sulla bicicletta azzurra»
Il linguaggio è creatore di mondi, spiegava solerte Popper alla fine degli anni Settanta quando all’universo delle entità fisiche (il cosiddetto «Mondo 1») e degli stati mentali (il «Mondo 2») affiancava quello relativo alle creazioni della mente umana, il «Mondo 3», la cui realtà ha uguale dignità e diritto d’esistenza di quella degli altri due. Ma la natura di questo mondo terzo è appunto linguistica, e Lars Gustafsson, che non era solo un letterato e scrittore, ma anche un puntuale studioso di filosofia del linguaggio – si formò a Oxford con Gilbert Ryle alla fine degli anni Cinquanta –, lo sapeva bene e proprio per questo, da «abitante di un universo in cui non si sentiva di casa», come il Lars Lennart Westin, morituro apicultore di genio del romanzo del 1978 (Morte di un apicultore, traduzione italiana di Carmen Giorgetti Cima, Iperborea, Milano 1989), con il suo linguaggio di mondi ne creò infiniti, esercitando quella salvifica «arte di poter diventare qualcun altro» (L’uomo sulla bicicletta azzurra, Iperborea 2016) che lo caratterizzava nel profondo.
Lars Gustafsson che, come tutti i protagonisti del suo universo narrativo, era nato nel 1936 nel Västerås, Svezia centrale, due giorni or sono ha definitivamente abbandonato il Mondo 1 e 2 lasciando però ancora nel Mondo 3 tutte le maschere con cui volle rivestire il volto di quel se stesso che amava chiamare Chiunque.
Poeta, prolifico romanziere, giornalista e filosofo, insegnò fino al 2006 – per ben ventidue anni – Storia del pensiero europeo a Austin, Texas, dove ambientò tra l’altro il suo magnifico «ciclo americano» (Storia con cane, 1994; Windy racconta, 1999 e Il decano, 2003, tutti tradotti da Giorgetti Cima ed editi da Iperborea) col quale riuscì a restituire con forza la desolazione di un deserto assolato e dimentico la cui voracità non è riuscita a spegnere la vitalità del suo pensiero.
Le sue storie e i suoi personaggi sembrano nascere infatti come immagini volatili attraverso la fessura degli occhi che scrutano un miraggio. Ossessionato dal tema della detestabile identità del soggetto, a cui dedicherà diversi romanzi (uno tra tutti La vera storia del signor Arenander, 1966), preferiva sentirsi e vedersi in absentia attraverso i diversi effetti che procurava sugli altri con la scrittura, piuttosto che apparire in prima persona: «Volevo dimostrare di essere vero, reale. E questo lo si può attestare in un unico modo: provocando un effetto su un’altra persona».
Attento lettore di Paul de Man, originale osservatore degli Yale Critics, è stato uno strenuo sostenitore delle grandi potenzialità che il linguaggio ha di trasmettere soprattutto esperienze, non soltanto concetti. La scrittura era per lui incapace di stare al passo con la velocità della realtà; per questo era convinto che il naturalismo in letteratura restasse sempre un passo indietro rispetto alla vita e che soltanto l’immaginazione, la visione onirica, fossero in grado di rendere ragione dell’accadere reale, e che i concetti si potessero spiegare mostrandoli in azione.
«Nulla è più brutale di un dato di fatto», mise in bocca al protagonista di uno dei suoi ultimi romanzi, è «come un sasso che affiora quando l’acqua – informe, e perciò capace di assumere mille colori e mille forme senza però mai snaturarsi – si ritrae», per questo non resta che rifugiarsi nell’immaginazione, la sola capace di produrre davvero dei cambiamenti nella realtà che viviamo. Immaginazione e meraviglia, quello stupore dinanzi alla realtà che non abbandonò mai lo scrittore-filosofo, sempre capace di distinguere nella trama della quotidianità quelle sporadiche epifanie che non sono che strappi attraverso i quali emerge un senso.
Perché è ancora e pur sempre lo stupore dinanzi all’essere ciò che distingue il filosofo, uno stupore a cui Lars Gustafsson è riuscito a dar voce attraverso lo sguardo di tutti i suoi personaggi, la cui caratteristica è sempre stata quella di interrogarsi, non darsi mai per vinti dinanzi alla spesso gravosa banalità del quotidiano.
Questo interrogarsi continuo assunse nella tecnica narrativa dello scrittore svedese un nome preciso, come lui stesso dichiarò in una recente intervista: «estetica della distrazione». I personaggi messi in scena dallo scrittore divagano infatti in modo inesausto, tanto che spesso le opere di Gustafsson sembrano un susseguirsi di libere associazioni, il cui flusso però non riesce mai a risultare noioso per il lettore, perché in quei personaggi interroganti egli si ritrova e vede rispecchiata una realtà che ha dentro, ma alla quale non riesce a dar voce. E si abbandona così al flusso di un narrare pacato, meditativo, come il movimento di una barca che dondoli sul lago calmo di Amänningen, nel Västmanland, sulle cui sponde lo scrittore ha scelto di vivere gli ultimi anni della sua esistenza.

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