venerdì 16 febbraio 2018

Confini di pelle, Maurizio Valtieri

È vero che i libri di racconti non si scelgono di sovente, a meno che non si tratti di una autrice o di un autore che si siano distinti per la loro abilità e allora può capitare addirittura di preferire un’antologia a un romanzo, o di rimpiangere quegli esordi in cui l’impegno per scrivere un brano perfetto copriva esattamente la misura di qualche pagina, con risultati eccellenti. Nella prefazione al volumetto di Maurizio Valtieri, Confini di pelle (Edizioni Croce, pp. 121, euro 15) Antonio Veneziani sottolinea la tendenza a considerare il racconto secondario rispetto alla forma lunga, concludendo invece su quanto proprio la raccolta di Maurizio Valtieri smentisca i pregiudizi e sia un’opera degna di essere letta per le ragioni più giuste: la qualità della lingua, la capacità narrativa. È utile, però, non mettere da parte la forma, utilizzarla come fattore d’analisi principale: una specificità che si costruisce anche a partire dal fatto che le storie e i personaggi di questo libro durano poche pagine e poi cambiano, radicalmente.
GLI OTTO RACCONTI di cui si compone Confini di pelle fanno risaltare, come in un bassorilievo, alcuni tratti della condizione umana: quelli che stanno dalla parte del nero, la metà mai esatta dello yin. Proprio per la eco potente della forma breve che crea un testo in cui come in una stanza piccola tutto ha più risonanza, si prova profonda inquietudine nel racconto Christmas Box, leggendo il dialogo fra la voce e lo schizofrenico, fra la parte rimossa che qui è donna e quella conscia, rappresentata da un personaggio maschile, un uomo sposato. La disabilità mentale torna, seppur di diversa natura, ne Il gradino in cui l’autore sa colpire a fondo, raccontando senza sbiancamenti appunto, l’insensatezza della violenza che conduce al carcere e che lì dentro si alimenta e di nuovo si amplifica, per le mura strette. Quasi come per ricordare a chi legge l’esistenza permanente del buio, del minuscolo come dell’imprevisto, Valtieri tratteggia l’incontro di un padre di famiglia «regolare» e della donna che lavora per strada e a cui tocca occuparsi delle sue pericolose devianze.
Il desiderio, filo conduttore che sembra animare la raccolta, mostra come la vita umana si svolga sempre nel perseguire di questa alternanza fra la sfortuna e la meraviglia, la disperazione e il successo, il vano e il serioso. Grazie a questa intersezione, spesso dicotomica eppure costantemente implicata, Valtieri racconta bene delle cose di cui di norma si sa solo parlare: gli attimi (e i corpi che annegano) di una famiglia, di un padre a cui si addormentano le braccia, che è partito profugo dalla Siria, dove fu un ragazzo agiato, che andava in piscina. Particolarmente riuscito il parallelismo fra una giovane musicista vittima di violenza e una nota musicale perfetta: unico racconto del libro in cui la penna dell’autore si stacca dalla materia e davvero volteggia per accompagnare questo suono perfetto e umanizzato alla ricerca di un senso della bellezza e della giustizia che pare non esistere più. A volte anche la ricerca della verità non basta per tessere il reale, è necessario saperlo immaginare.
[Laura Marzi 16/02/2018]

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