mercoledì 12 aprile 2017

Underground Railroad, Colson Whitehead


Il premio Pulitzer per la letteratura 2017 è andato allo scrittore afroamericano Colson Whitehead per il romanzo «Underground Railroad», che narra con un tocco fantascientifico le possibilità di fuga degli schiavi.
Il romanzo di Colson Whitehead, The Underground Railroad, è tra i cinque libri che il presidente Usa Barack Obama ha portato con sé per le vacanze a Martha’s Vineyard. Nella lista diffusa dalla Casa Bianca compaiono anche Giorni selvaggi. Una vita sulle onde di William Finnegan, vincitore del Pulitzer 2016 per la biografia e l’autobiografia, il bestseller La ragazza del treno di Paula Hawkins, Io e Mabe. Ovvero l’arte della falconeria di Helen MacDonald e il thriller fantascientifico Seveneves di Neal Stephenson.
William Thomas, il direttore della casa editrice Doubleday che ha appena pubblicato il nuovo romanzo di Colson Whitehead, The Underground Railroad, all’inizio dell’estate aveva spedito una lettera ai librai americani: «Faccio questa professione da 29 anni e ho imparato quanto sia pericoloso creare troppe aspettative su un libro in uscita. Per questo, di solito cerco di trattenermi. Ma quello che ha fatto Colson Whitehead è così straordinario che non posso rimanere in silenzio. The Underground Railroad mi ha profondamente turbato, tanto che dopo aver finito di leggerlo sono uscito in strada e ho cominciato a camminare, come sotto choc, per cercare di analizzare l’onda di emozioni che mi aveva travolto. Non mi vergogno a dire che ho pianto, più volte, leggendo questo romanzo… Mettere a disposizione del mondo libri come questo è il motivo per cui tutti noi abbiamo scelto questa professione così complicata. Magari state pensando che stia esagerando. Sono assolutamente certo che non la penserete più così quando avrete finito di leggere questo libro».
Thomas non sapeva ancora che Oprah Winfrey, leggendo una delle copie pilota, avrebbe avuto la stessa reazione: e per questo ha deciso di scegliere The Underground Railroad per il suo Oprah Book Club, garanzia di visibilità e vendite-monstre che ha addirittura convinto l’editore a anticiparne l’uscita, ora che in copertina c’è il bollino con la «O» della presentatrice televisiva più famosa e ascoltata d’America. Il commento di Winfrey? È andata oltre quello che ha scritto l’editore ai librai: «Mi ha tenuto sveglia la notte, con il cuore in gola, quasi spaventata al pensiero di voltare pagina. Comprate questo libro, una copia per voi e una per una persona che conoscete perché vorrete assolutamente parlarne con qualcuno, quando avrete letto l’ultima pagina, che vi darà un colpo al cuore».
Così, pubblicazione anticipata di un mese (era prevista per settembre) e altre 200 mila copie stampate in fretta e furia (con bollino winfreyano) oltre alle iniziali rispettabili 50 mila. Libro pubblicato in anticipo, e in anticipo stanno uscendo le recensioni, addirittura due sul «New York Times» oltre a una lunga intervista all’autore che, lodevolmente, sa di aver scritto un libro tanto potente su un tema tanto importante — la schiavitù — da avvertire in anticipo l’America: «Non sono un rappresentante dell’essere afroamericano, non sono un predicatore: ho scritto un libro e vorrei parlare di quello». Proposito nobile ma impossibile in questo 2016 che vede Donald Trump — con l’incredibile endorsement di quel che resta del Ku Klux Klan — in corsa per la Casa Bianca nominato dal partito che un tempo (lontanissimo) fu di Abraham Lincoln, nell’estate delle manifestazioni di Black Lives Matter per i neri disarmati uccisi dalla polizia. Whitehead è il primo a sapere che si tratta di un libro su un tema attualissimo e altrettanto doloroso perché l’idea gli era venuta sedici anni fa, ma non si sentiva ancora pronto, né tecnicamente né emotivamente. Nel 2014 stava cominciando un altro romanzo, poi ha capito che era arrivato il momento di affrontare «il libro che mi spaventava», e ha scritto The Undeground Railroad. La «ferrovia» del titolo è quella di un’espressione americana che indica il percorso segreto che veniva utilizzato dagli schiavi in fuga dai loro padroni, la rete di simpatizzanti che cercava di aiutarli a raggiungere il Nord e lasciare per sempre il Sud schiavista in cerca della libertà.

L’idea, semplicissima come quasi sempre sono quelle geniali (d’altronde lui da quasi esordiente si aggiudicò una borsa della Fondazione Macarthur conosciuta come «Genius Grant») è questa: perché non immaginare che la «underground railroad» fosse, letteralmente, una ferrovia sotterranea? Binari in un tunnel scavato da chissà chi, treni che arrivano senza orario diretti da qualche parte verso Nord, stazioni abbandonate. Whitehead, attraverso i pensieri della protagonista del suo libro straordinario, Cora, una schiava di quindici anni in fuga dai suoi aguzzini, la descrive così: «… gli uomini e le donne che costruirono la ferrovia sotterranea, che scavarono un milione di tonnellate di pietra e terra, faticando nel ventre della terra per liberare gli schiavi dalle loro catene… I capistazione, i ferrovieri, i simpatizzanti. Chi sei diventato una volta che hai costruito qualcosa di così magnifico, tu che nel costruire quest’opera immensa sei riuscito a arrivare dall’altra parte. All’entrata c’eri tu, e chi eri prima di intraprendere quel viaggio sottoterra, e all’uscita c’è una persona nuova che esce finalmente a fare i primi passi nella luce. Il mondo che sta sopra deve sembrare così banale rispetto al miracolo che sta sotto, il miracolo che avete costruito con il vostro sudore e il vostro sangue. Il trionfo segreto che portate sempre con voi, nei vostri cuori».
Whitehead sa che la realtà ha tanti limiti e che il realismo magico, di cui è un giovane maestro fin dall’uscita del suo primo libro già così sicuro dei propri mezzi tecnici, L’intuizionista (edito in Italia da Mondadori), ha tante sfumature. Al «New York Times» ha spiegato di aver riletto, prima di cominciare, Cent’anni di solitudine, e di aver deciso di «non alzare il volume fino a 10», di mantenere cioè una realtà che ci spiazza ma non è completamente aliena. Una realtà amplificata che può sorprenderci a ogni pagina, che Italo Calvino avrebbe definito «iperromanzo, o romanzo elevato al quadrato, o al cubo». Whitehead ha un controllo tanto sofisticato della sua scrittura che per raccontare l’orrore assoluto — il primo di tanti stupri subiti da Cora ancora bambina, sulla nave che la sta portando in America, a opera di un vecchio marinaio — ha bisogno soltanto di tre righe («A causa della tenera età di Cora, inizialmente i suoi carcerieri non la costrinsero a subire le loro voglie, ma giunti alla sesta settimana di viaggio alcuni dei marinai più esperti la trascinarono fuori dalla stiva. Prima di arrivare in America aveva già tentato per due volte di uccidersi»). Tre righe appena, che restano marchiate nel cuore del lettore, tre righe in cui c’è tutta la grandezza di Whitehead: il riferimento ovvio e naturale di questo libro è Amatissima di Toni Morrison (Sperling & Kupfer) ma dove la signora Morrison userebbe paragrafi di quel suo linguaggio così influenzato dalla Bibbia — la traduzione seicentesca «voluta da re Giacomo» che ha forgiato tanti scrittori di lingua inglese — Whitehead usa un’economia di mezzi assoluta pur senza fare sconti all’orrore. È il totale rifiuto di ricattare il lettore che per questo resta ancora più impresso nella memoria e nelle nostre emozioni: Primo Levi scriveva in questo modo, ed è la scelta ideale per raccontare il viaggio di Cora che, quasi subito, mostra tutto il suo debito verso I viaggi di Gulliver. Ma dove Swift fa satira Whitehead lancia un nitido, abbagliante j’accuse: i neri venduti come bestie al mercato sotto gli occhi del pubblico che tiene per mano bambini che mangiano caramelle, i neri marchiati, picchiati, violentati. I neri in fuga sottoterra dai loro carnefici bianchi, dai mercenari che cercano di riportarli indietro, nelle case infernali dei loro padroni.
«Se non riesci a trovare il libro che vuoi leggere, scrivilo tu», è il famoso consiglio che Toni Morrison dà ai giovani scrittori, e Whitehead ha seguito la scrittrice da Nobel, ha affrontato le sue paure per raccontarci, dopo trecento pagine capaci davvero di tenere il lettore sveglio di notte, la luce in fondo al tunnel della schiavitù. Verso una libertà tanto bella quanto difficile da conservare, che va difesa e protetta, mai presa per scontata: Whitehead si è documentato con fonti storiche di primissima scelta come Edward Baptist e Eric Foner e Michelle Alexander, nel costruire il mondo da incubo di Cora in fuga rievoca la famosa pagina di Dispacci di Michael Herr del marine americano con la collana di orecchie mozzate ai Vietcong, immagina i linciaggi dei neri messi in scena come agghiaccianti, allegri spettacolini di varietà per il pubblico bianco. Iperrealtà di un iperromanzo che grazie all’aiuto di Oprah Winfrey (tanti anni fa recitò nel film tratto da Il colore viola di Alice Walker, un altro dei riferimenti di Whitehead) ora troverà un pubblico enorme. Caso editoriale dell’ultima estate alla Casa Bianca del primo presidente nero, salutato otto anni fa da Derek Walcott con una poesia: uno schiavo liberato che, all’alba, comincia a arare un campo, segno di «una profezia impossibile», la folla che si divide per lasciar passare un presidente nero.
 
 Il dramma «Sweat», che indaga ciò che resta del sogno americano tra la classe operaia ha vinto per il teatro. Il libro memoir Il ritorno dello scrittore libico Hisham Matar si è aggiudicato il premio nella sezione «Biography» (il rapporto con il padre, l’esilio, un paese sotto attacco).
 Per il giornalismo, nella  categoria «Explanatory report»,  il Pulitzer è andato all’International Consortium of Investigative Journalists, all’editore McClatchy e al Miami Herald, per le storie sui Panama Papers, i documenti trapelati da una delle più importanti società del mondo che si occupa di creazione e gestione di società off shore, studiati nel corso di una  inchiesta che ha coinvolto decine di quotidiani, tra cui «L’Espresso»).
Fra i fotografi vince  Daniel Berehulak per i  reportage sui metodi disumani della guerra alla droga del presidente filippino Dutert.
Per la musica, la protagonista è la compositrice cinese Du Yun per Angel’s Bone, un’opera lirica «coraggiosa che integra elementi vocali e strumentali e una vasta gamma di stili in una straziante allegoria della condizione dell’uomo nel mondo moderno».
A Tyehimba Jess di Detroit per Olio, il Pulitzer poetico, per «un’opera particolare che mescola performance art con la più profonda arte della poesia, per esplorare la memoria collettiva e le sfide rappresentate dalle nozioni contemporanee di razza e identità».

Nessun commento: