mercoledì 8 marzo 2017

Parole e storie. Generazioni di donne allo specchio


La prima nasce a Napoli nei primi anni del secolo, è di buona famiglia, la fanno studiare, ha molte sorelle, alcune vere altre no. Ha il dono della mano: disegna tutto quello che vede. È piccola piccola, come non fosse mai cresciuta, arriva a stento al metro e cinquanta. Delicata nelle membra, concreta nella mente. Accetta in matrimonio un bel giovane calabrese, dai normanni occhi verdi. Poi scoppia la guerra, il marito parte soldato, lei resta sola con tre bambini piccoli, viene spostata in varie località d’Italia, alla fine si rifugia con dei cugini nell’entroterra ligure. Per anni non ha notizie del marito, potrebbe essere morto, evaso, deportato. Ma tiene dritto il timone, fino in fondo. L’uomo torna, fanno un quarto figlio, si trasferiscono nella capitale, la pensione, i nipoti, i gatti, diventa vedova, non smette mai di disegnare, a pastello, a matita, a tempera. Fino all’ultimo giorno. Non ha mai voluto sentir parlare di femminismo, aborriva le trasgressioni dei ’70, umiliava la figlia che ne galoppava le istanze libertarie.
La seconda viene dal nord, scende a Roma solo per sposarsi, subito si sente spaesata ma non lo dice. È una donna molto riservata, tiene sempre gli occhi bassi, crede molto nella religione e nei valori di una buona educazione. È maestra elementare e una fantastica nuotatrice. Presto fa tre figli, primogenito un maschio, come desiderano, all’epoca, tutte le donne e tutte le famiglie come si deve. Il patriarca è soddisfatto. Ma, per carattere, è autoritario, la maltratta, fa solo come pare a lui perché ha i soldi, li ha guadagnati con il sudore della fronte e l’arguzia del cervello, è un self-made man, i soldi sono l’unica cosa che conta. Niente smancerie. Lei sopporta tutto, vede, capisce, riconosce le donne che lui preferisce a lei, ma tace. Ama spasmodicamente il figlio ma le è quasi proibito di farlo, come tante altre cose. Le riesce solo di insegnargli un crawl perfetto e trasmettergli l’amore per la letteratura. È fatta per stare lì ad aspettare il suo re. Da anziana va dal parrucchiere una volta a settimana e torna con una vaporosa chioma celeste che la rende una perfetta fata Turchina. Avrà avuto una vita felice? Non sta a noi dirlo.
La terza ha poco più di cinquant’anni ma i capelli tutti bianchi, dopo un incidente di macchina dove se l’è vista brutta. Non ha avuto figli perché il tempo e la vita le sono scorsi tra le mani senza che se ne accorgesse. Ha lottato tanto, non ha mai smesso di lottare, lotta ancora. È il suo modo di restare a galla, di pensare agli altri. Insieme ad altre donne ha messo su luoghi di incontro, collettivi politici, consultori gratuiti. Ha lavorato per la città, per tutte le donne. Ha abortito due volte, la prima da ragazza, volontariamente, la seconda che aveva superato i quaranta e il corpo non ha voluto. È buona ma non buonista, perdona ma non si lascia infinocchiare. È sola ma non ci si sente. Ogni tanto torna in paese a trovare la madre. Le porta la marmellata di arance amare, forse l’unica cosa che hanno in comune, l’unica trasmessa di madre in figlia. Resta quel tanto che basta. Quando si affacciano le recriminazioni scappa. Dice: «Mamma, devo andare, mi aspettano». «Chi ti aspetta, chi? Ti sei tenuta un uomo per una volta?». Lei non risponde, è già oltre l’uscio. Le manda un bacio da lontano, estremizzando il gesto del braccio. A casa, in automatico, accende la televisione per procurarsi una sonnolenza fittizia. Vede donne-gatto, donne-panda, donne-galline. Non le giudica ma la confondono: ha vissuto anche lei la menopausa ma senza mai pensare di ridursi in quel modo. Parlano a vuoto di politica, di maquillage, di osteoporosi senza soluzione di continuità. La vacuità degli argomenti la conduce nel magico mondo dei sogni. Buonanotte. Domani è l’otto marzo, domani è un altro giorno, si vedrà. Tre donne.
[Fabiana Sargentini 08/03/2017]

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