Nel cuore degli anni Settanta
Giovanni Arrighi, noto a livello mondiale per il suo Il lungo XX secolo
(tradotto dal Saggiatore nel 1996), approdò alla nuova Università della
Calabria. Aveva alle spalle studi di economia alla Bocconi ed esperienze
di ricerca e insegnamento in Africa e a Trento, mai disgiunte dalla
partecipazione appassionata ai conflitti sociali e politici del suo
tempo. Installatosi nel visionario campus di Arcavacata di Rende,
Arrighi raccolse in un seminario informale un gruppo di ricercatori, per
proseguire nello scenario calabrese le sue indagini storiche e
sociologiche su capitalismo e forza-lavoro.
IL LABORATORIO-CALABRIA,
«metafora della periferia», confermò e precisò alcuni assunti che
andavano emergendo nell’approccio al sistema mondiale dell’economia
lanciato da Immanuel Wallerstein ed altri studiosi.
Da poche settimane Donzelli ha tradotto Il capitalismo in un contesto ostile (pp. 162, euro 19), un lungo saggio pubblicato nel 1987 da Arrighi e da Fortunata Piselli, un’antropologa che aveva partecipato al seminario calabrese e che firma una postfazione sulla Calabria di oggi. Originariamente apparso sulla «Review» del Fernand Braudel Center di Binghamton, fondato dallo stesso Wallerstein nel 1976, ove il sociologo milanese si era trasferito nel 1979, si tratta di uno dei preziosi frutti di quell’esperienza calabrese e rappresenta tuttora un modello per ulteriori studi e approfondimenti. Come riassume efficacemente nella Prefazione un’altra partecipante al seminario, la storica Marta Petrusewicz, si spezzava la relazione necessaria fra l’avvento di rapporti capitalistici di produzione, la proletarizzazione della manodopera e l’ascesa a posizioni «centrali» nel sistema globale: queste tre caratteristiche potevano andare anche disgiunte, così come non vi era un nesso meccanico fra condizione proletaria e mobilità migratoria.
Da poche settimane Donzelli ha tradotto Il capitalismo in un contesto ostile (pp. 162, euro 19), un lungo saggio pubblicato nel 1987 da Arrighi e da Fortunata Piselli, un’antropologa che aveva partecipato al seminario calabrese e che firma una postfazione sulla Calabria di oggi. Originariamente apparso sulla «Review» del Fernand Braudel Center di Binghamton, fondato dallo stesso Wallerstein nel 1976, ove il sociologo milanese si era trasferito nel 1979, si tratta di uno dei preziosi frutti di quell’esperienza calabrese e rappresenta tuttora un modello per ulteriori studi e approfondimenti. Come riassume efficacemente nella Prefazione un’altra partecipante al seminario, la storica Marta Petrusewicz, si spezzava la relazione necessaria fra l’avvento di rapporti capitalistici di produzione, la proletarizzazione della manodopera e l’ascesa a posizioni «centrali» nel sistema globale: queste tre caratteristiche potevano andare anche disgiunte, così come non vi era un nesso meccanico fra condizione proletaria e mobilità migratoria.
NEL PRIMO OTTOCENTO la
Calabria era caratterizzata dal latifondo contadino, ma a metà secolo le
formazioni sociali cominciavano a differenziarsi, facendo della regione
un agglomerato di modalità produttive, pur accomunate dalla
perifericità rispetto ai centri dell’economia globale. Il Crotonese
diventò un grande latifondo capitalistico, con alternanza di cereali e
allevamento, l’esproprio dei contadini semi-indipendenti e la loro
riduzione a braccianti salariati. Il Cosentino vide invece l’ascesa
contadina alla piccola proprietà tesa all’autosussistenza, che innescava
forma diverse di emigrazione. Nella piana di Gioia Tauro infine il
mondo contadino si articolava attorno alla produzione mercantile di
agrumi, olio e vino.
PERCHÉ DIVERGEVANO?
Congiunture economiche e unificazione nazionale non possono spiegarlo,
occorre ricostruire la storia dei contesti ambientali locali («ostili»:
malaria, scarsità di comunicazioni, brigantaggio), la loro interazione
(ad esempio tramite flussi migratori interni) e l’esito del conflitto
sociale che opponeva l’interesse dei proprietari per i nuovi mercati
esterni a quello dei coltivatori.
Dopo il 1945, per diverse vie le diverse formazioni del capitalismo periferico ripresero a convergere: attraverso la lotta di classe e la riforma agraria (nel Crotonese), la crisi della piccola produzione (nel Reggino) e l’emigrazione di massa (il Cosentino) si disgregava la centralità agricola. Allo stesso tempo si affermava la mediazione statale e partitica, si diffondevano i consumi e si dilatavano i movimenti verso le fabbriche del Nord, per la peculiare posizione della Calabria, regione di un Paese sospeso fra centro e semiperiferia dell’economia globale.
Dopo il 1945, per diverse vie le diverse formazioni del capitalismo periferico ripresero a convergere: attraverso la lotta di classe e la riforma agraria (nel Crotonese), la crisi della piccola produzione (nel Reggino) e l’emigrazione di massa (il Cosentino) si disgregava la centralità agricola. Allo stesso tempo si affermava la mediazione statale e partitica, si diffondevano i consumi e si dilatavano i movimenti verso le fabbriche del Nord, per la peculiare posizione della Calabria, regione di un Paese sospeso fra centro e semiperiferia dell’economia globale.
NON DEVE INGANNARE la
natura di «articolo» dello scritto, perché per densità e acutezza vale
almeno un voluminoso trattato e non basta una recensione a renderne
pienamente conto. Con modestia, Arrighi e Piselli definivano il lavoro
uno studio della «formazione di una forza lavoro salariata in un
contesto periferico», ma in realtà realizzarono una lezione di metodo
per le scienze storico-sociali, delineando un ricchissimo affresco
storico del mutamento sociale in un’intera regione, nelle sue relazioni
con il contesto nazionale e globale e nel suo prodursi attraverso sempre
nuovi conflitti.
[Michele Nani 14/03/2017]
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