martedì 10 gennaio 2017

La realtà assediata, Ricardo Piglia

Come Borges, scrittore che studiò e interpretò in maniera molto acuta, Ricardo Piglia fu prima ancora che l’autore di una produzione narrativa tra le più brillanti degli ultimi trent’anni, un grande lettore, con una capacità di ricerca e una visione di sintesi di cui è traccia evidente la sua opera critica, fondamentale per le lettere latinoamericane, e apprezzabile anche in italiano in L’ultimo lettore (2005).
Proprio il suo acume critico ha permesso a Piglia di disegnare un panorama della letteratura argentina in cui alcune tradizionali contrapposizioni storiche, tematiche e formali si sono risolte in una prospettiva nuova, che vede Borges, Arlt, Macedonio Fernández, Gombrowicz e Walsh come parte di una complessa e contraddittoria tradizione, che comprende pure generi considerati minori, come il romanzo poliziesco, il tango o il fumetto. La generazione più giovane si distaccò da quella prospettiva anche tramite polemiche cui Piglia non si è mai sottratto, ma ormai di quel disegno non si poteva più fare a meno, e la parabola della cultura argentina è servita poi come punto di riferimento per tutta la produzione artistica ispanoamericana.
ANCHE IN TUTTA l’opera narrativa di Piglia – cinque romanzi e altrettante raccolte di racconti, genere in cui è stato maestro indiscusso e che varrebbe la pena scoprire pure in Italia – la maestria del lettore deve innestarsi su una scrittura sempre poliedrica, in cui ogni romanzo è nello stesso tempo molti altri testi, dove narratori multipli si inseguono, e si accumulano una miriade di racconti intercalati secondo una tradizione ispanica di radice cervantina, ripresa in chiave postmoderna.
Fin dal primo romanzo, Respirazione artificiale, del 1980, la questione della trama e quella dell’identità – temi centrali nell’opera di Piglia – vengono posti da un’angolatura del tutto innovativa. Nell’incipit, una domanda radicale: «C’è una storia?», poi le diverse voci che si intrecciano nella narrazione cercano di rispondere indagando le vicende singole dei protagonisti all’interno della Storia del paese, in modo da produrre una domanda a cui non è possibile dare una risposta univoca, bensì solo azzardare ipotesi, smontare illusioni. Quando il romanzo venne pubblicato, la risposta ufficiale la dava un governo militare tra i più feroci della storia argentina, e Piglia fu capace di descrivere quegli orrori attraverso la lente di una lettura problematica e interrogativa della narrativa nazionale.
L’intreccio tra letteratura e storia avrebbe poi impegnato Piglia in un progetto che rimane come testimonianza della sua passione per l’incrocio fra la ricerca intellettuale e la sua diffusione per un pubblico più ampio: nel 1993 pubblicò infatti La Argentina en pedazos, antologia di versioni a fumetti di una serie di classici argentini, legati dal tema della violenza, affidati ai migliori disegnatori della grande scuola argentina: nelle brevi introduzioni di Piglia, la sua raffinata riflessione critica diventa patrimonio collettivo e, en passant, anticipa la gran voga futura delle graphic novel.
Nel secondo romanzo, La città assente, che seguì a ben dodici anni dall’esordio, i temi della storia, della violenza, della repressione politica si collegano a quello della produzione stessa dell’intreccio, dato che al centro del romanzo – strutturato in una serie di frammenti – c’è una «macchina per narrare», ricordo di una delle invenzioni di Macedonio Fernández, che si propone come la fabbrica di una narrativa non solo frutto dell’esperienza individuale, ma prodotto di una collettività che, attraverso queste storie spezzettate, cerca di costruire una memoria suscettibile di continui rinnovamenti, attuati tramite un linguaggio avvolgente e di grande impatto.
NEL FRAMMENTO intitolato «L’isola», la macchina per narrare risponde al potere che vuole chiudere il Museo della memoria con un’operazione di resistenza, che riproduce i ricordi svuotandoli però di ogni contenuto legato a un territorio, per riportarli a una comunità che risulta esserne la vera depositaria.
A partire dal terzo romanzo, Soldi bruciati (1997), la narrativa di Piglia si orienta decisamente al poliziesco, genere di cui dirigeva due collane. Qui, la scrittura breve e velocissima parte quasi come una sorta di cronaca di una rapina, anche in questo caso ricostruita da diversi punti di vista, per trasformarsi poi nella descrizione di un vero e proprio assedio della polizia ai rapinatori che si sono rifugiati in un appartamento.
L’intensità della narrazione cresce progressivamente, e assume i toni di un’epica dei perdenti contemporanei, quei banditi caduti in una spirale maledetta, che scelgono la via della violenza come unica strada segnata da un destino inesorabile.
Anche nel quarto romanzo, Bersaglio notturno (2010) non è difficile riconoscere il legame con il genere poliziesco, ma qui la corposità della storia permette l’inclusione di molte tra le ossessioni tipiche della narrativa di Piglia: i giochi prospettici, la molteplicità dei caratteri, una serie di vicende intercalate e parallele, oltre all’apparizione di un personaggio – quello di Emilio Renzi – che si trasformerà nel suo vero alter ego.
Ritornano poi personaggi al limite della pazzia, o macchine in grado di creare mondi immaginari, e il romanzo poliziesco mostra come l’enigma non si possa risolvere, il colpevole essendo niente altro che un capro espiatorio. Così, il genere si trasforma e diventa «romanzo paranoico», in cui la narrazione si apre sempre a nuovi sviluppi possibili, dentro e fuori il testo vero e proprio, ad esempio nella proliferazione quasi incontrollabile delle note a pié di pagina, che sviluppano quasi un metaracconto parallelo, una vertiginosa mise en abyme.
L’ULTIMO LIBRO pubblicato da Piglia, Per Ida Brown (2013) è anch’esso fatto da molti romanzi in uno: ci ritroviamo Emilio Renzi, trapiantato in un’università statunitense per una serie di conferenze su W.H. Hudson, autore inglese vissuto a lungo in Argentina, che rappresenta per lui il caso esemplare degli «scrittori legati a una doppia appartenenza, legati a due lingue e a due tradizioni».
Nel romanzo tutto sembra partire dalla letteratura – i motivi autobiografici, le riflessioni sui più diversi autori e sui testi, poi di nuovo l’impossibilità di sviluppo cui va incontro il genere poliziesco; tuttavia, l’ambientazione nel microuniverso di uno dei campus americani, «pensati per lasciare fuori l’esperienza e le passioni, ma in cui si muovono forti ondate di collera sotterranea: la terribile violenza degli uomini educati», trasforma il romanzo in una potente metafora della società contemporanea, e non solo di quella statunitense.
Del resto, l’attenzione insistita sulla trama poliziesca non risponde, nel caso di Ricardo Piglia, a un cedimento nei confronti di un genere popolare e di successo; l’autore argentino lo mette in discussione, lo scompone, e proprio grazie ad esso costruisce il suo dialogo con una cultura di massa da cui non vuole prescindere: lo avevano già fatto Walsh, Puig, Saer, scrittori che lavorarono su generi considerati popolari, e su cui Piglia ha riflettuto in maniera magistrale.
QUESTA STESSA RICERCA di dialogo ha guidato anche il suo impegno in senso più ampiamente culturale, come sceneggiatore per il cinema, o per la televisione, per la quale adattò due romanzi di Roberto Arlt in due serie trasmesse dalla televisione argentina nel 2015, oppure nella direzione della collana La serie del recienvenido, dedicata a classici moderni argentini, riscattati dalla furia della dimenticanza prodotta dall’industria editoriale contemporanea.
L’ultimo progetto di Piglia, quello da lui definito come il più importante della sua vita, fu la pubblicazione dei suoi diari e coincise, in parte, con la diagnosi e la successiva battaglia contro la Sla, la malattia di cui è morto. Due di questi volumi sono già stati pubblicati, mentre l’ultimo è atteso per quest’anno: scritti a cominciare dall’età di quindici anni, i diari coprono tutti i molteplici interessi dello scrittore argentino, e non offrono solo uno sguardo indiscreto sul laboratorio dell’autore.
Attribuendoli al suo alter ego Emilio Renzi, Piglia compie l’ultimo gesto di borgesiano distacco dalla propria opera, e così consegna al lettore «l’altro Piglia», l’unico che ci resterà attraverso le sue pagine, che appartengono ormai «al linguaggio o alla tradizione»
[Stefano Tedeschi 10/01/2017]

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