Una foto di Ferdinando Scianna, nel suo sfolgorante bianco e nero,
spicca sulla copertina dei dieci pezzi narrativi che Stefano Vilardo ha
voluto riunire sotto il titolo Le nevi di una volta
(Thule, pp. 84, euro 10,00), a significare per mezzo di un’immagine, e
fin da subito, la poetica che sta alla base del libro e che lo sostiene e
lo sospinge; ma poi, e insieme, quasi a indicare, marcandola, per quali
linee si venga a produrre quel procedimento di recupero dei ricordi che
al dunque (come sappiamo) si palesa come un territorio ovviamente
affatto lineare e anzi ricco di intrecci, nodi, incroci, cortocircuiti,
epifanie, lampi, accecamenti, grumi, screziature – una sorta di notes
magico, insomma, pronto a diventare per il lettore memoria duratura e
condivisa e, innanzitutto, affresco di una comune genealogia di uomini e
di paesaggi, di impeti e di scoperte, di smanie conoscitive e di
avventure intellettuali.
Leggendo queste prose finora disperse o del tutto inedite e ora raccolte
in volume per l’ottima cura di Giuseppe Saja (sua è la densa, partecipe
introduzione) ci si rende conto di quanto un tempo ogni cosa pareva
un’avventura, una prova irripetibile, una rivelazione, un campo di
meraviglie e di stupori. Persino un viaggio in automobile da
Caltanissetta a Bagheria, nella primavera del 1963, al volante il poeta
Alfonso Campanile («figlio», segnala Vilardo, «del federale zoppo di
brancatiana memoria»), in visita alla prima mostra di un giovanissimo
Scianna (siamo nel racconto d’apertura Oh, sì, che mi ricordo!). Non
dovette insistere né troppo né molto Leonardo Sciascia, crediamo, per
convincere l’amico di sempre (Nanà e Stestè si chiamarono
reciprocamente, fin dall’adolescenza e poi per sempre, i due
inseparabili amici) affinché l’impresa si realizzasse. Giunti a
destinazione, del fotografo nemmeno l’ombra. Ma la memoria di Vilardo
(si legge un suo efficacissimo ritratto in uno dei Cammei firmati da
Aldo Gerbino per edizioni Pungitopo) lavora aprendo in successione
infinite porte: qui ci sono le foto (una su tutte, datata 1960: il
grande e oramai leggendario cantastorie paternese Ciccio Busacca mentre
si esibisce in pubblico), l’ammirazione di chi le guarda, Baaria. Al
pari di un atto mancato, è tuttavia assente il suo autore, dunque il suo
ritratto si dà come impossibile. Ma ecco entrare sulla scena il
vulcanico, l’omerico Ignazio Buttitta, il poeta che di mestiere faceva
il salumiere, «gesticolante e vociante», un vento di vitalissima
tempesta che i concittadini onorano con un «ossa-binidica, Pueta». Così
si articolano gli «scavi» di Vilardo prima di trasformarsi in un fluido
fiume di emersioni e di riapparizioni.
«Fu in quegli anni che sfruconammo mezza Sicilia in cerca dei suoi
tesori più nascosti: musei, scavi archeologici, marmi, statue, cornici,
stucchi, ceramiche, scritte, disegni, graffiti dimenticati nei labirinti
dimenticati di chiese e di chiesuole, palazzi aviti e castelli diruti,
carceri e sacrestie. Visitammo luoghi impensabili, posti sconosciuti
dove aveva perduto, così come si dice, le scarpe nostro Signore»: con
queste parole Vilardo riassume il sentimento che animò lui e, con lui,
Sciascia e Lilly Bernardo e gli altri amici e compagni di via in quelle
lontane stagioni di scambi felici e di condivisione – e basterà leggere,
nel cuore del libro, Indimenticabili quegli anni Sessanta, memoria
investita tutta di luce, d’aria, di antica e umile bellezza, di povertà e
di speranza. Alla ricerca, in quei vagabondaggi, «anche di poeti» e di
«scrittori, pittori, grafici, incisori, e… della cucina popolare più
saporita».
È l’epoca di quella che Bernardino Zapponi definì come la Piccola Atene
nissena, la quale si ritrovava nelle stanze dell’editore Salvatore
Sciascia (ne facevano parte due comunisti di esemplare caratura,
Napoleone Colajanni e Massimiliano Macaluso, fratello di Emanuele); è il
tempo della rivista «Galleria» e dei suoi preziosi «Quaderni», dove
uscirono I primi fuochi e Il frutto più vero, gli esordi poetici dello
stesso Vilardo, rispettivamente datati 1954 e 1960, e dove molto dopo,
nel 1988, verrà stampato Gli astratti furori (ma vi pubblicarono, tra i
tanti, anche Pasolini, Roversi, Romanò e Leonetti, praticamente il
gruppo fondatore di «Officina»). Anche per tramite del fraterno Nanà,
avvengono gli incontri con Renato Guttuso e con Bruno Caruso, con
Vincenzo Consolo, che ha da poco dato alle stampe La ferita dell’aprile,
e con l’indimenticabile Sebastiano Addamo, autore di grana finissima e
intellettuale rigoroso e austero.
Ma c’è un prima. Prima c’è Delia, la patria del critico e
dell’inflessibile e coriaceo polemista Luigi Russo, dove il nostro
scrittore è nato nel 1922 (si legga Venerdì Santo, forse il racconto più
racconto del volume). E gli anni trenta con la complicata formazione
scolastica (e Vilardo non smette di benedire la propria «felicissima
bocciatura in terza inferiore che mi fece compagno di banco, e amico per
la vita, di Leonardo Sciascia»), la scoperta di Montale e di Ungaretti,
la passione per la letteratura americana attraversata in chiave
antifascista, le tante paia di scarpe consumate a passeggiare lungo il
corso principale di Caltanissetta, le discussioni, le sere a teatro
(anche quello leggero, di rivista), le serenate alla ragazza amata (qui
raccontate in Ma l’amore no…). Per comprendere meglio quel clima e
quella temperie si può ora leggere, di recente uscita per le Edizioni
Lussografica, Singolare avventura di Leonardo e Vitaliano nella città di
pietra gialla di Sergio Mangiavillano, una specie di puntigliosa e
immaginosa docu-fiction in cui diversi destini si incrociano, certo
quello di Vilardo e di Sciascia, ma poi di quest’ultimo e dell’allora
insegnante Brancati (e uno dei racconti del libro, Sulla ‘Universa
Parnassia Caticattinensis’, ha di certo un sapore brancatiano) .
Sapevamo delle qualità di ritrattista di Vilardo, e dunque qui non
stupisce di ritrovarle nel Ricordo di Angelo Fiore o in Settembre,
straziante appendice di A scuola con Leonardo Sciascia (Sellerio, 2012),
flash sull’autunno estremo della vita terrena dello scrittore già in
clinica, a Palermo, circondato da medici, amici e conoscenti, che a un
certo punto rivolge a voce bassa all’amico parole di indignata fermezza
laica («Stestè, tutti mi dicono, amorosamente mi consigliano come fare
per durare più a lungo. Come tentare di resistere alla scoramento,
all’angoscia. Ma nessuno che abbia voglia di insegnarmi come mettere
fine, al più presto, a questa inumana sofferenza che mi umilia, che mi
degrada»).
E, insomma, Le nevi di una volta non è un libro interlocutorio o, tanto
meno, minore. Esso si va ad aggiungere, senza alcuna esitazione, alla
bibliografia preziosa di questo patriarca e decano della letteratura
siciliana, per posizionarsi accanto a Una sorta di violenza (1990) e a
Uno stupido scherzo (1997), entrambi pubblicati da Sellerio, e a
quell’unicum che rimane la radicale prova di Tutti dicono Germania
Germania (Garzanti, 1975: poi ristampato dalla casa editrice palermitana
nel 2007). Esso, provando a definirlo, si mostra come un libro di
devozione all’amicizia e all’isola, quest’ultima il solo ed esclusivo
continente di Stefano Vilardo.
[Enzo di Mauro 25/09/2016]
Questo blog accoglie la nuova avventura di quelli di Sguardi d’Altrove, e il Reverendo Dogdson, con i suoi dubbi sulla realtà, si aggiunge al nostro olimpo di numi tutelari. Non dimentichiamo gli autori che più spesso ci hanno accompagnati nel viaggio di Sguardi d’Altrove, anzi, da loro ripartiamo. Quindi, un pensiero affettuoso e ammirato, in particolare, ad Alan Bennet a alla sua Sovrana Lettrice, mantenendo ben fermo il principio che ragguagliare non è leggere.
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