Non dovremmo meravigliarci se gli uomini
uccidono le donne. Finché sono identificate (e nell’immaginario
dominante lo sono tuttora) con la sessualità e la maternità, considerate
dall’uomo doti femminile «al suo servizio», o a lui finalizzate, è
scontato che esploda la possessività nel momento in cui le donne
decidono (separandosi) di non essere più quel corpo a disposizione.
È questa idea della donna, posta a fondamento della nostra, così come di tutte le civiltà finora conosciute, che va scalzata in modo radicale, dalla cultura alta, come dal senso comune, e da quella rappresentazione di sé e del mondo forzatamente fatta propria anche dal sesso femminile. È sulla «normalità», dentro cui la violenza è meno visibile, ma per questo più insidiosa, che va portata l’attenzione. Di che altro parlano i pensatori che ancora fanno testo nelle nostre scuole?
L’educazione delle donne, dice Rousseau nell’Emilio, deve essere in funzione degli uomini: «La prima educazione degli uomini dipende dalle cure che le donne prodigano loro; dalle donne infine dipendono i loro costumi, le loro passioni, i loro gusti, i loro piaceri, la loro stessa felicità. Così tutta l’educazione delle donne deve essere in funzione degli uomini. Piacere e rendersi utili a loro, farsi amare e onorare, allevarli da piccoli, averne cura da grandi, consigliarli, consolarli, rendere loro la vita piacevole e dolce (…) L’uomo deve essere attivo e forte, l’altra passiva e debole. È necessario che l’uno voglia e possa, è sufficiente che l’altra opponga poca resistenza. Il più forte è apparentemente il padrone ma di fatto dipende dal più debole».
Tanto meno le donne possono sentirsi parte della vita sociale, da cui sono state escluse per secoli, essendo stata fin dall’inizio appannaggio esclusivo di una comunità di uomini.
Oggi si parla molto di «educazione di genere», ma si potrebbe dire che la scuola lo ha sempre fatto, con la differenza che lo statuto di «genere», appartenenza a un gruppo pensato come un tutto coeso – è stato a lungo applicato, anche nelle più qualificate dottrine pedagogiche, soltanto al sesso femminile.
Ne è un esempio l’analisi di Erik H. Erikson, autore di un testo, Infanzia e società (Armando Editore, Roma, 1966), rimasto a lungo riferimento importante per chi insegnava. Nonostante gli vada riconosciuto il merito di aver sostenuto la necessità di un’analisi che non separasse dati biologici, storia sociale e sviluppo dell’individuo, quando si tratta di definire ruoli e «competenze» di «genere», sono di nuovo le diversità anatomiche e fisiologiche ad avere il sopravvento. Gli attributi della «mobilità» e della «staticità», che differenzierebbero il comportamento maschile da quello femminile, sono presentati come «reminiscenze», «modi strettamente paralleli alla morfologia degli organi sessuali». Se il «fare sociale», che è dell’uomo, comporta «l’attacco, il piacere della competizione, l’esigenza della riuscita, la gioia della conquista», quello della donna appare legato unicamente alla seduzione, al «desiderio di essere bella e di piacere», ma soprattutto alla «capacità di assecondare il ruolo procreativo del maschio», capacità che fa della donna una «compagna comprensiva e una madre sicura di sé».
Rendersi indispensabili, «far trovare buona la vita all’altro» è stato a lungo il modo alienante con cui le donne hanno cercato di riempire il vuoto apertosi all’origine nell’amore di sé.
Nell’illusione di «foggiare se stesse» hanno impegnato tutte le loro energie nello sforzo di aiutare l’altro a divenire se stesso.
La dedica che Andrè Gorz scrive nel libro dedicato alla moglie, Lettera a D. Storia di un amore, dice: «A te, Kay che, dandomi te, mi hai dato Io». Per capire quanto sia profonda la convinzione che il dovere della donna sia di rendere buona la vita all’uomo, basta leggere i giudizi che due uomini illustri, Benedetto Croce ed Emilio Cecchi, danno di Sibilla Aleramo. «Non faccio il moralista a buon mercato; e intendo e scuso perfino – dice Croce – il fallo commesso nell’impeto della giovinezza sensuale e fantastica, quando avete abbandonato vostro marito e vostro figlio (…) Comunque il fatto era fatto; e voi avevate avuto un’ottima occasione per formarvi una nuova vita; quando stavate col Cena. Ma voi volevate amare il Cena, quando il vostro dovere era invece di aiutarlo e sacrificarvi a lui». E Cecchi: «Nessuna servitù materna, o dono incondizionato, che la faccia rivivere nell’altro, negandola. Non ha bisogno che di sé». Ma quanto è estesa la maternità delle donne se, oltre a bambini, malati, anziani sono chiamate a curare, sostenere psicologicamente e moralmente uomini in perfetta salute? Come si può pensare che questo corpo femminile presente nella vita dell’uomo dalla nascita alla tomba, passando per la la scuola, l’assistenza nelle malattie, cioè attraverso i bisogni primari dell’umano, non alimenti, più o meno consapevolmente pulsioni di fuga, aggressività, fantasie omicide, in chi ne teme la stretta quanto l’abbandono?
[Lea Melandri 2/07/2016]
È questa idea della donna, posta a fondamento della nostra, così come di tutte le civiltà finora conosciute, che va scalzata in modo radicale, dalla cultura alta, come dal senso comune, e da quella rappresentazione di sé e del mondo forzatamente fatta propria anche dal sesso femminile. È sulla «normalità», dentro cui la violenza è meno visibile, ma per questo più insidiosa, che va portata l’attenzione. Di che altro parlano i pensatori che ancora fanno testo nelle nostre scuole?
L’educazione delle donne, dice Rousseau nell’Emilio, deve essere in funzione degli uomini: «La prima educazione degli uomini dipende dalle cure che le donne prodigano loro; dalle donne infine dipendono i loro costumi, le loro passioni, i loro gusti, i loro piaceri, la loro stessa felicità. Così tutta l’educazione delle donne deve essere in funzione degli uomini. Piacere e rendersi utili a loro, farsi amare e onorare, allevarli da piccoli, averne cura da grandi, consigliarli, consolarli, rendere loro la vita piacevole e dolce (…) L’uomo deve essere attivo e forte, l’altra passiva e debole. È necessario che l’uno voglia e possa, è sufficiente che l’altra opponga poca resistenza. Il più forte è apparentemente il padrone ma di fatto dipende dal più debole».
Tanto meno le donne possono sentirsi parte della vita sociale, da cui sono state escluse per secoli, essendo stata fin dall’inizio appannaggio esclusivo di una comunità di uomini.
Oggi si parla molto di «educazione di genere», ma si potrebbe dire che la scuola lo ha sempre fatto, con la differenza che lo statuto di «genere», appartenenza a un gruppo pensato come un tutto coeso – è stato a lungo applicato, anche nelle più qualificate dottrine pedagogiche, soltanto al sesso femminile.
Ne è un esempio l’analisi di Erik H. Erikson, autore di un testo, Infanzia e società (Armando Editore, Roma, 1966), rimasto a lungo riferimento importante per chi insegnava. Nonostante gli vada riconosciuto il merito di aver sostenuto la necessità di un’analisi che non separasse dati biologici, storia sociale e sviluppo dell’individuo, quando si tratta di definire ruoli e «competenze» di «genere», sono di nuovo le diversità anatomiche e fisiologiche ad avere il sopravvento. Gli attributi della «mobilità» e della «staticità», che differenzierebbero il comportamento maschile da quello femminile, sono presentati come «reminiscenze», «modi strettamente paralleli alla morfologia degli organi sessuali». Se il «fare sociale», che è dell’uomo, comporta «l’attacco, il piacere della competizione, l’esigenza della riuscita, la gioia della conquista», quello della donna appare legato unicamente alla seduzione, al «desiderio di essere bella e di piacere», ma soprattutto alla «capacità di assecondare il ruolo procreativo del maschio», capacità che fa della donna una «compagna comprensiva e una madre sicura di sé».
Rendersi indispensabili, «far trovare buona la vita all’altro» è stato a lungo il modo alienante con cui le donne hanno cercato di riempire il vuoto apertosi all’origine nell’amore di sé.
Nell’illusione di «foggiare se stesse» hanno impegnato tutte le loro energie nello sforzo di aiutare l’altro a divenire se stesso.
La dedica che Andrè Gorz scrive nel libro dedicato alla moglie, Lettera a D. Storia di un amore, dice: «A te, Kay che, dandomi te, mi hai dato Io». Per capire quanto sia profonda la convinzione che il dovere della donna sia di rendere buona la vita all’uomo, basta leggere i giudizi che due uomini illustri, Benedetto Croce ed Emilio Cecchi, danno di Sibilla Aleramo. «Non faccio il moralista a buon mercato; e intendo e scuso perfino – dice Croce – il fallo commesso nell’impeto della giovinezza sensuale e fantastica, quando avete abbandonato vostro marito e vostro figlio (…) Comunque il fatto era fatto; e voi avevate avuto un’ottima occasione per formarvi una nuova vita; quando stavate col Cena. Ma voi volevate amare il Cena, quando il vostro dovere era invece di aiutarlo e sacrificarvi a lui». E Cecchi: «Nessuna servitù materna, o dono incondizionato, che la faccia rivivere nell’altro, negandola. Non ha bisogno che di sé». Ma quanto è estesa la maternità delle donne se, oltre a bambini, malati, anziani sono chiamate a curare, sostenere psicologicamente e moralmente uomini in perfetta salute? Come si può pensare che questo corpo femminile presente nella vita dell’uomo dalla nascita alla tomba, passando per la la scuola, l’assistenza nelle malattie, cioè attraverso i bisogni primari dell’umano, non alimenti, più o meno consapevolmente pulsioni di fuga, aggressività, fantasie omicide, in chi ne teme la stretta quanto l’abbandono?
[Lea Melandri 2/07/2016]
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