sabato 2 luglio 2016

Essenzialmente corpi

Non dovremmo meravigliarci se gli uomini uccidono le donne. Finché sono identificate (e nell’immaginario dominante lo sono tuttora) con la sessualità e la maternità, considerate dall’uomo doti femminile «al suo servizio», o a lui finalizzate, è scontato che esploda la possessività nel momento in cui le donne decidono (separandosi) di non essere più quel corpo a disposizione.
È questa idea della donna, posta a fondamento della nostra, così come di tutte le civiltà finora conosciute, che va scalzata in modo radicale, dalla cultura alta, come dal senso comune, e da quella rappresentazione di sé e del mondo forzatamente fatta propria anche dal sesso femminile. È sulla «normalità», dentro cui la violenza è meno visibile, ma per questo più insidiosa, che va portata l’attenzione. Di che altro parlano i pensatori che ancora fanno testo nelle nostre scuole?
L’educazione delle donne, dice Rousseau nell’Emilio, deve essere in funzione degli uomini: «La prima educazione degli uomini dipende dalle cure che le donne prodigano loro; dalle donne infine dipendono i loro costumi, le loro passioni, i loro gusti, i loro piaceri, la loro stessa felicità. Così tutta l’educazione delle donne deve essere in funzione degli uomini. Piacere e rendersi utili a loro, farsi amare e onorare, allevarli da piccoli, averne cura da grandi, consigliarli, consolarli, rendere loro la vita piacevole e dolce (…) L’uomo deve essere attivo e forte, l’altra passiva e debole. È necessario che l’uno voglia e possa, è sufficiente che l’altra opponga poca resistenza. Il più forte è apparentemente il padrone ma di fatto dipende dal più debole».
Tanto meno le donne possono sentirsi parte della vita sociale, da cui sono state escluse per secoli, essendo stata fin dall’inizio appannaggio esclusivo di una comunità di uomini.
Oggi si parla molto di «educazione di genere», ma si potrebbe dire che la scuola lo ha sempre fatto, con la differenza che lo statuto di «genere», appartenenza a un gruppo pensato come un tutto coeso – è stato a lungo applicato, anche nelle più qualificate dottrine pedagogiche, soltanto al sesso femminile.
Ne è un esempio l’analisi di Erik H. Erikson, autore di un testo, Infanzia e società (Armando Editore, Roma, 1966), rimasto a lungo riferimento importante per chi insegnava. Nonostante gli vada riconosciuto il merito di aver sostenuto la necessità di un’analisi che non separasse dati biologici, storia sociale e sviluppo dell’individuo, quando si tratta di definire ruoli e «competenze» di «genere», sono di nuovo le diversità anatomiche e fisiologiche ad avere il sopravvento. Gli attributi della «mobilità» e della «staticità», che differenzierebbero il comportamento maschile da quello femminile, sono presentati come «reminiscenze», «modi strettamente paralleli alla morfologia degli organi sessuali». Se il «fare sociale», che è dell’uomo, comporta «l’attacco, il piacere della competizione, l’esigenza della riuscita, la gioia della conquista», quello della donna appare legato unicamente alla seduzione, al «desiderio di essere bella e di piacere», ma soprattutto alla «capacità di assecondare il ruolo procreativo del maschio», capacità che fa della donna una «compagna comprensiva e una madre sicura di sé».
Rendersi indispensabili, «far trovare buona la vita all’altro» è stato a lungo il modo alienante con cui le donne hanno cercato di riempire il vuoto apertosi all’origine nell’amore di sé.
Nell’illusione di «foggiare se stesse» hanno impegnato tutte le loro energie nello sforzo di aiutare l’altro a divenire se stesso.
La dedica che Andrè Gorz scrive nel libro dedicato alla moglie, Lettera a D. Storia di un amore, dice: «A te, Kay che, dandomi te, mi hai dato Io». Per capire quanto sia profonda la convinzione che il dovere della donna sia di rendere buona la vita all’uomo, basta leggere i giudizi che due uomini illustri, Benedetto Croce ed Emilio Cecchi, danno di Sibilla Aleramo. «Non faccio il moralista a buon mercato; e intendo e scuso perfino – dice Croce – il fallo commesso nell’impeto della giovinezza sensuale e fantastica, quando avete abbandonato vostro marito e vostro figlio (…) Comunque il fatto era fatto; e voi avevate avuto un’ottima occasione per formarvi una nuova vita; quando stavate col Cena. Ma voi volevate amare il Cena, quando il vostro dovere era invece di aiutarlo e sacrificarvi a lui». E Cecchi: «Nessuna servitù materna, o dono incondizionato, che la faccia rivivere nell’altro, negandola. Non ha bisogno che di sé». Ma quanto è estesa la maternità delle donne se, oltre a bambini, malati, anziani sono chiamate a curare, sostenere psicologicamente e moralmente uomini in perfetta salute? Come si può pensare che questo corpo femminile presente nella vita dell’uomo dalla nascita alla tomba, passando per la la scuola, l’assistenza nelle malattie, cioè attraverso i bisogni primari dell’umano, non alimenti, più o meno consapevolmente pulsioni di fuga, aggressività, fantasie omicide, in chi ne teme la stretta quanto l’abbandono?
[Lea Melandri 2/07/2016]

Nessun commento:

Commenti

il 12/08 SR ha commentato Non credo che D'Avenia possa far parte del nostro blog. Certo i suoi libri sono best-sellers tra gli adolescenti, e probabilmente hanno il merito di avviare qualche giovane alla lettura, ma la banalità delle situazioni e del linguaggio non permettono di considerare questi testi letteratura. Diciamo che sono testi "di servizio", nella migliore delle ipotesi. su Prossimamente
il 14/05 SR ha commentato Purtroppo J.K.J. non sembra più funzionare con le ultime generazioni: un tentativo di leggere a scuola Three Men In a Boat è finito miseramente in noia. I ragazzi non capivano cosa c'era da ridere e io non capivo perché non capivano. Tristissimo. Jerome per me è finito in quell'armadio dove tengo gli autori speciali che voglio proteggere dagli studenti... su Jerome K. Jerome, fare ridere l’uomo moderno, spaventato
il 29/02 Ida ha commentato A proposito di classifiche: "Oggi se vai al cinema devi entrare a un’ora fissa, quando il film incomincia, e appena incomincia qualcuno ti prende per così dire per mano e ti dice cosa succede. Ai miei tempi si poteva entrare al cinema a ogni momento, voglio dire anche a metà dello spettacolo, si arrivava mentre stavano succedendo alcune cose e si cercava di capire che cosa era accaduto prima (poi, quando il film ricominciava dall’inizio, si vedeva se si era capito tutto bene - a parte il fatto che se il film ci era piaciuto si poteva restare e rivedere anche quello che si era già visto). Ecco, la vita è come un film dei tempi miei. Noi entriamo nella vita quando molte cose sono già successe, da centinaia di migliaia di anni, ed è importante apprendere quello che è accaduto prima che noi nascessimo; serve per capire meglio perché oggi succedono molte cose nuove." Anch'io,come U.ECO sono andata al cinema nel modo ricordato e quindi io amo ricordare e vorrei tanto poter fare liste di su Chi siamo
il 28/02 Ida ha commentato Grazie Roberta per aver riaperto il blog.Trovo che è un modo per uscire dalla solitudine delle letture personali.Scrivere e leggere accanto, trovo che è un bel modo per parlarci e parlarmi. su Chi siamo