lunedì 27 giugno 2016

Tre giorni e una vita, Pierre Lemaitre


Nessuno avrebbe immaginato che Pierre Lemaitre, dopo l’acclamatissimo Ci rivediamo lassù, di cui solo in Francia sono state vendute più di seicentomila copie, tornasse al romanzo di genere. Invece, Tre giorni e una vita (traduzione di Stefania Ricciardi, Mondadori, pp. 226, euro 18,00), il suo nuovo lavoro, lungi dall’essere l’atteso secondo volume della trilogia storica iniziata con il lavoro premiato al Goncourt nel 2013, è un romanzo nero tesissimo e inquietante: «Mi sembrava giusto dare ai lettori qualcosa che so fare piuttosto bene», ha detto Lemaitre, riconoscendo in sé, implicitamente, l’autore di genere piuttosto che il romanziere impegnato. Eppure, con Tre giorni e una vita Lemaitre offre nuove prospettive alla letteratura nera, virandone l’assunto verso complesse derive psicologiche. Ciò che qui interessa l’autore, infatti, non è come si arriva al delitto o l’atto criminale in sé, e tanto meno la scoperta dell’assassino (che, al contrario, è conosciuto fin dalle primissime pagine) ma come si vive con il crimine – o meglio, come gli si sopravvive.
Proprio perché tutta la narrazione – dalle angosce del protagonista ai giochi del caso che sembrano garantirgli incolumità fino agli inattesi colpi di scena finali – si a snoda partire dalla scena dell’omicidio, si può tranquillamente rivelare come la vicenda ruoti intorno all’assassinio di un bambino di sei anni da parte di un ragazzo di dodici. Lo stesso autore, del resto, ha più volte sottolineato come il suo romanzo abbia per protagonista un criminale atipico, che per età apparterrebbe ancora all’universo dell’innocenza, e che compie il suo gesto in maniera fortuita, senza alcuna premeditazione.
Si può essere criminali a dodici anni? E, convivendo con segreti tanto gravosi, può succedere che si finisca per adattarsi alla propria criminalità nell’età adulta? Sono queste, secondo l’autore, le questioni alla base del libro. Più che in altri romanzi di Lemaitre, qui il noir è il naturale sbocco di quella visione tragica dell’esistenza che caratterizza tutta la sua narrativa, e che in Ci rivediamo lassù ha trovato la sua resa migliore. Di scena non è, ovviamente, un «nero» convenzionale, piuttosto una sorta di Delitto e castigo contemporaneo, ambientato nell’estrema provincia francese e avente per protagonista un Roskolnikov dodicenne. Segreto, colpa e espiazione ne sono i temi portanti. Il piccolo Antoine, che ha ucciso per rabbia e per errore, si trova, anche in virtù di un concorso di casualità imprevedibili (non ultima una tremenda alluvione che si abbatte sul suo villaggio un paio di giorni dopo l’omicidio) a portare da solo il peso delle sue azioni, senza trovare la forza di costituirsi o di confessarle. Così la sua colpa continua a ossessionarlo, soprattutto nei tre terribili giorni in cui si svolge la prima parte del romanzo: tre giorni del 1999 in cui, solo di fronte a un mondo provinciale che non cessa mai di sospettare di tutto e di tutti, in assenza di un giudice che lo condanni, diventa egli stesso il proprio carnefice, attraversando tutti gli stadi di una coscienza torturata dalla colpevolezza. E poiché, come ha spiegato lo stesso Lemaitre, «chi dice segreto dice espiazione», nella seconda parte del romanzo, a distanza di una dozzina d’anni, Antoine, futuro medico di belle speranze, costretto a tornare al paese natio e confrontarsi con un passato che ha lottato duramente per rimuovere, paga in maniera del tutto inattesa il prezzo di quella terribile colpa infantile, che un’intera vita non basterà a espiare.
Tre giorni drammatici, sufficienti a rovinare tutta un’esistenza: questo il significato del titolo del romanzo, che propone una situazione tragica del tutto plausibile, passibile di suscitare nei lettori empatia tanto nei confronti del protagonista (per cui nella prima parte non si può non provare pietà) quanto per i genitori della piccola vittima, che non sanno quale sia stata l’atroce fine del figlio scomparso. Lemaitre gioca su questa ambivalenza in un autentico tour de force narrativo, e cala i propri letori, nella prima parte del romanzo che è anche la più lunga, all’interno di una coscienza infantile lacerata dalla colpa.
Grazie a un uso sapiente del discorso indiretto libero, che gli permette di entrare non solo nella mente di Antoine, ma anche in quella dei molti personaggi minori, ma non per questo meno importanti, che abitano il paese di Beuval, Lemaitre riesce a mantenere il lettore in questa ambigua posizione. Non per caso, la costruzione della scena in cui si svolgono gli eventi è fondamentale: Beuaval è un piccolo mondo pettegolo facilmente riconoscibile. Colpito dalla crisi poiché la sua economia si regge su una fabbrica di giocattoli in legno che stanno andando rapidamente fuori moda, il villaggio è scosso dal risentimento di quanti hanno perduto o stanno perdendo il posto di lavoro; poi, grazie al turismo, che favorisce nuove assunzioni e fa prosperare i commerci, Beauval ritrova la serenità: «una città con i negozianti soddisfatti – commenta sarcasticamente l’autore – è una città contenta di sé». E se il tema della crisi e della disoccupazione rimanda a Lavoro a mano armata, un gioiello narrativo in cui Lemaitre riusciva a fondere in maniera esemplare noir e impegno sociale, i diversi sguardi degli abitanti di Beauval conferiscono una particolare impronta visuale al racconto, commentando la storia, da un lato, e costruendo e ricostruendo la scena, dall’altro.
Da questi sguardi, Antoine si sente ossessionato nei tre giorni di sofferenza del 1999; e da essi si ritroverà a temere di venire smascherato, al suo ritorno nel 2011. Del resto, è proprio a partire da un elemento visivo, una fotografia, che gli eventi precipitano, in maniera ancora una volta del tutto imprevedibile. Di fronte a un’immagine riproducente le fattezze che bambino da lui ucciso avrebbe avuto a diciotto anni, una immagine ottenuta grazie a un software di elaborazione fotografica, Antoine, ormai divenuto un adulto opportunista e per nulla incline a prendersi le proprie responsabilità, vede riaffiorare i peggiori incubi di quei tre giorni maledetti: «Antoine vedeva il proprio riflesso sulla vetrina sovrapporsi stranamente al volto di quel ragazzo che non aveva conosciuto e di cui era il solo a sapere che non esisteva. La speranza che tutti covavano, a Beauval, di ritrovare il piccolo Rémi ancora vivo, cresciuto da qualche parte senza ricordare più chi fosse, era un’illusione, una menzogna». Una bugia pronta a rivoltarsi contro l’omicida che, nei dodici anni trascorsi dal suo folle gesto, ha concentrato «tutti i suoi sforzi, tutta la sua attenzione… verso se stesso, verso l’aspirazione alla propria sicurezza, all’impunità».
A partire da qui, il romanzo subisce un’accelerazione che porterà a una serie di scioglimenti del tutto inaspettati, fino all’epilogo a sorpresa, datato all’anno 2015. Ma Tre giorni e una vita si impone all’attenzione del lettore di certo non solo per il finale sconcertante: ciò che innanzi tutto muove la lettura d’un fiato è il tormento del piccolo Roskolnikov di Beauval, che rimarrà nella mente dei lettori ben oltre l’ultimo colpo di scena.
[Silvia Albertazzi 26/06/2016]

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