Gradito ritorno in Italia, Teju Cole
sarà ospite questa sera a Massenzio, protagonista dell’incontro «Se la
memoria è un impegno» durante il quale leggerà il testo inedito «Memoria
come Uguaglianza». Scrittore e fotografo, Cole è nato in America nel
1975 da genitori nigeriani, è cresciuto in Nigeria con la nonna fino a
diciassette anni ed è poi tornato negli Stati Uniti, dove attualmente
vive, a New York.
Il suo romanzo d’esordio, Every Day is for the Thief, scritto e pubblicato in Nigeria nel 2007 (ripubblicato da Penguin Random House nel 2014 e, nello stesso anno, in Italia da Einaudi, con il titolo Ogni giorno è per il ladro), narra del ritorno alla nativa Lagos – tentacolare e corrotta metropoli africana contemporanea – di un eroe innominato, dopo una lunga permanenza negli Stati Uniti. La seconda pubblicazione, Open city (Città aperta, Einaudi 2013), si riferisce ad una altrettanto caotica e allucinata New York, la cui percezione arriva al lettore distorta dalla lente deformante dei disturbi psichici del suo giovane protagonista-narratore. L’opera è stata finalista al National Book Critics Circle Award come miglior romanzo, vincendo numerosi premi internazionali, è stata definita da importanti testate giornalistiche uno dei migliori libri dell’anno e tradotta in dodici lingue.
Il suo romanzo d’esordio, Every Day is for the Thief, scritto e pubblicato in Nigeria nel 2007 (ripubblicato da Penguin Random House nel 2014 e, nello stesso anno, in Italia da Einaudi, con il titolo Ogni giorno è per il ladro), narra del ritorno alla nativa Lagos – tentacolare e corrotta metropoli africana contemporanea – di un eroe innominato, dopo una lunga permanenza negli Stati Uniti. La seconda pubblicazione, Open city (Città aperta, Einaudi 2013), si riferisce ad una altrettanto caotica e allucinata New York, la cui percezione arriva al lettore distorta dalla lente deformante dei disturbi psichici del suo giovane protagonista-narratore. L’opera è stata finalista al National Book Critics Circle Award come miglior romanzo, vincendo numerosi premi internazionali, è stata definita da importanti testate giornalistiche uno dei migliori libri dell’anno e tradotta in dodici lingue.
Teju Cole è critico fotografico per «The
New York Times Magazine» e ha collaborato con il «New Yorker», «Granta»
e altre importanti testate americane. Dopo aver esposto alcune sue
immagini in mostre collettive in India, Islanda e Stati Uniti, la sua
prima mostra personale, «Punto d’ombra», a cura di Alessandra Mauro, è
stata presentata a Milano a Forma Meravigli nella primavera 2016.
Con lo stesso titolo Punto d’ombra, il suo nuovo libro esce ora in Italia per Contrasto nella collana «In parole» (pp. 166 pagine, euro 22, traduzione di Gioia Guerzoni), in una serie di scatti (107 fotografie a colori) e parole appunto che, come le pagine di un diario visivo, seguono e testimoniano i diversi viaggi e le numerose peregrinazioni dell’autore in giro per il mondo. A detta stessa di Cole «secondo una logica pertinente, ogni fotografia si trova nell’anticamera della parola», e così un dettaglio metropolitano, l’interno di un hotel, una persona qualunque, persino un albero o un bidone di latta assumono dignità narrative e di rappresentazione. In seguito ad un periodo di semi-cecità di cui l’artista è stato vittima qualche anno fa, nelle sue opere più recenti Cole si pone una serie di riflessioni legate ai temi del «vedere» e della «memoria», arrivando in Punto d’ombra, all’operazione ardita e ai limiti di ogni canonica definizione di genere di corredare i suoi scatti fotografici con brevi e poetici racconti. Il rapporto speciale tra testo e immagine che si crea nell’opera viene così sintetizzato da Siri Hustvedt nell’introduzione al libro: «Quando l’otturatore si chiude, il mondo si ferma in un’inquadratura. Anche le parole vengono fissate dalla scrittura».
Con lo stesso titolo Punto d’ombra, il suo nuovo libro esce ora in Italia per Contrasto nella collana «In parole» (pp. 166 pagine, euro 22, traduzione di Gioia Guerzoni), in una serie di scatti (107 fotografie a colori) e parole appunto che, come le pagine di un diario visivo, seguono e testimoniano i diversi viaggi e le numerose peregrinazioni dell’autore in giro per il mondo. A detta stessa di Cole «secondo una logica pertinente, ogni fotografia si trova nell’anticamera della parola», e così un dettaglio metropolitano, l’interno di un hotel, una persona qualunque, persino un albero o un bidone di latta assumono dignità narrative e di rappresentazione. In seguito ad un periodo di semi-cecità di cui l’artista è stato vittima qualche anno fa, nelle sue opere più recenti Cole si pone una serie di riflessioni legate ai temi del «vedere» e della «memoria», arrivando in Punto d’ombra, all’operazione ardita e ai limiti di ogni canonica definizione di genere di corredare i suoi scatti fotografici con brevi e poetici racconti. Il rapporto speciale tra testo e immagine che si crea nell’opera viene così sintetizzato da Siri Hustvedt nell’introduzione al libro: «Quando l’otturatore si chiude, il mondo si ferma in un’inquadratura. Anche le parole vengono fissate dalla scrittura».
Lei è scrittore e fotografo,
riconosciuto e apprezzato in entrambe le arti e ora si cimenta nella
loro mescolanza sperimentale e creativa. In che maniera la sua scrittura
influenza la sua attività di fotografo e viceversa? Cos’è venuto prima e
cosa viene prima ora?
Sono arrivate nella mia vita quasi
simultaneamente, circa una dozzina di anni fa. Ho trovato la voce che
volevo usare nei miei scritti nello stesso momento in cui ho iniziato ad
usare una macchina fotografica per farne qualcosa di più che scatti di
famiglia. Ed esse si sono sviluppate insieme, così che Città aperta è
infestata di fotografie (sebbene non ne contenga nemmeno una) e tutte le
mie fotografie sembrano contenere un pensiero articolabile, un pensiero
nascosto al loro interno che potrebbe essere trascritto.
In «Punto d’ombra» lei mescola
letteratura e fotografia, ha per caso come modello un autore come
Sebald? Qual è il processo creativo di raccontare una storia attraverso
immagini e parole?
Non considero tanto Sebald un modello
per questo mio lavoro. Sono più vicino ai registi di documentari che
combinano le immagini con il memoir e la speculazione filosofica, come
Chris Marker, che ha fatto Sans Soleil e Le Jetée. Mi piace anche molto
l’approccio umano e personale al documentario di Louis Malle. Il
processo consiste nel pensare il progetto con un «lavoro aperto» nel
senso che io raccolgo moltissime cose nel corso della mia vita e dei
miei viaggi e più tardi rifletto su come queste potrebbero relazionarsi
l’una all’altra. Potrei essere in Indonesia e concepire un certo
pensiero, e quando poi sviluppo il mio rullino dell’Indonesia, potrei
realizzare che questo pensiero – che approfondisco e rifinisco mentre lo
metto per iscritto – si connetta ad una delle fotografie. O potrei
sviluppare il rullino e trovare una fotografia che mi dica qualcosa che
non sapevo, conducendomi a delle parole che non avevo premeditato. È
sempre un processo organico. Non posso programmarlo tutto in anticipo,
né vorrei farlo.
Nelle sue opere precedenti,
soprattutto in «Città aperta», aveva già iniziato a sfidare, o almeno a
tentare di ridefinire la struttura tradizionale della narrazione, in che
misura questo era intenzionale? Ha qualche modello in mente?
Veramente no. Cioè, sono stato influenzato da Gente di Dublino di James Joyce per quanto riguarda la lingua e da Mrs Dalloway
di Virginia Woolf per il modo in cui i pensieri si muovono liberamente.
Ma per la maggior parte volevo semplicemente raccontare questa storia
come l’esperienza interiore di un uomo nel modo in cui doveva essere
narrata. Penso che l’opera sia un po’ sperimentale, ma non così
sperimentale come l’Ulisse o L’uomo senza qualità ad esempio.
Il suo protagonista è un
«narratore inaffidabile», spesso allucinato e ambiguo, si tratta di un
limite di coscienza o questo gli concede (e concede anche a lei) una
maggiore libertà di espressione individuale e artistica?
Volevo fare un lavoro che fosse vicino
alla vita, dove ricordiamo le cose in maniera imperfetta e non siamo
sempre al meglio di noi stessi. Volevo che la possibilità di disappunto
fosse parte dell’opera.
In «Ogni giorno è per il ladro»
un eroe senza nome torna in Nigeria dopo una lunga esperienza di
migrazione negli Stati Uniti. È un suo alter ego o è un’allegoria del
migrante contemporaneo? O forse sta cercando di guadagnare quanto più
spazio e libertà possibile evadendo le categorizzazioni?
Esattamente. In parte sono io, in gran parte no. La libertà è tutto ciò che conta. Mentre il lettore legge. Voglio che si dimentichi della tecnica e sia semplicemente assorto nel flusso di pensieri e osservazioni, così da sentirsi realmente coinvolto in una visita a Lagos.
Esattamente. In parte sono io, in gran parte no. La libertà è tutto ciò che conta. Mentre il lettore legge. Voglio che si dimentichi della tecnica e sia semplicemente assorto nel flusso di pensieri e osservazioni, così da sentirsi realmente coinvolto in una visita a Lagos.
Quali sono le sue influenze, letterarie e non?
Michael Ondaatje, Anne Carson, Johannes Brahms, John Coltrane, Luigi Ghirri, Lee Friedlander, Federico Fellini, John Berger, Michel Serres. Mia nonna.
Michael Ondaatje, Anne Carson, Johannes Brahms, John Coltrane, Luigi Ghirri, Lee Friedlander, Federico Fellini, John Berger, Michel Serres. Mia nonna.
Com’è cambiata la sua vita dopo la pubblicazione dei suoi libri?
Città aperta mi ha dato
l’enorme privilegio di fare quello che mi piace per vivere. Mi ha detto
che era ok andare per la mia strada, essere creativo, ed essere anche un
po’ difficile. Ogni giorno è per il ladro ha raddoppiato quel
vantaggio. Senza l’accoglienza che quelle opere hanno ricevuto
probabilmente non avrei avuto il coraggio di provare qualcosa di così
sperimentale come Punto d’Ombra.
[Francesa Giommi 23/06/2016]
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