L’orologio del divorzio, la messa in atto dell’articolo 50 che
regola l’uscita dall’Ue, ha già cominciato a ticchettare furiosamente.
Quasi in malo modo, i ministri degli esteri di tutto il continente hanno
intimato all’«untore» di andarsene in tutta fretta prima di contagiare
il resto dell’Unione, in una mossa brusca temperata soltanto dall’invito
di Angela Merkel a non precipitare i toni e a non assumere
atteggiamenti duri o punitivi nei confronti di questa separazione poco
consensuale.
Ciononostante, il commissario britannico europeo Lord Jonathan Hill, rappresentante di massimo rilievo presso l’Ue, pur sottolineando il proprio rammarico per la decisione presa dal popolo britannico ha dato le dimissioni dalla commissione Juncker, commentando: «Quel che è fatto è fatto».
Non la pensano così gli autori dei 2 milioni di firme raccolte attorno a una petizione per indire un secondo referendum, che venerdì, in poche ore, ha mandato in crash il sito del governo. La petizione recita testualmente: «Noi sottoscritti ci rivolgiamo al governo di Sua Maestà perché promulghi una regola per cui se il voto per leave o remain è inferiore al 60% e basato su un’affluenza di meno del 75% si dovrebbe indire un secondo referendum». Per essere prese in considerazione dal parlamento, la soglia minima di firme è centomila.
L’uscita di Hill, che sarebbe stato uno choc solo qualche settimana fa, è ormai l’ordinario effetto collaterale di una reazione a catena innescatasi venerdì mattina dopo la notizia della vittoria del leave e che ha causato le dimissioni di un David Cameron dagli occhi umidi.
Contemporaneamente, sul sito Change.org, altre 151mila firme in poco tempo andavano a sottoscrivere la richiesta al sindaco di Londra Sadiq Khan di dichiarare Londra indipendente dal Regno Unito e rientrare nell’Unione Europea. Sono due sviluppi che fino a qualche tempo fa uno avrebbe potuto leggere su un romanzo di fantapolitica e che trasmutano bruscamente Britain da Great a Little.
Che danno l’idea dello sgomento generalizzato soprattutto fra le giovani generazioni metropolitane e globalizzate, la cui non sufficiente affluenza alle urne è probabilmente fra le cause della sconfitta di misura del remain che, lo ricordiamo, ha perso per due punti percentuali, 48 a 52%. In una ripartizione che riflette abbastanza quella geografica del voto, la maggior parte dei firmatari proviene dalle zone metropolitane del paese, e in particolare da Londra.
Nel partito conservatore si apre intanto la questione del post-Cameron. Nella sua conferenza stampa accanto a Michael Gove, Boris Johnson, assediato davanti al suo domicilio londinese da una folla ostile in uno strano trionfo nel posto sbagliato, pareva uno che sa di averla fatta grossa. Ha commentato la vittoria in tono sommesso e serissimo, in una performance lontana anni luce da quelle per cui è noto e amato dall’elettorato conservatore. Forse pensa all’equivoco che lo esporrà al ludibrio dei votanti del leave, cui Nigel Farage ha fatto credere che la vittoria avrebbe del tutto interrotto il flusso migratorio nel paese: una cosa naturalmente impossibile.
I Tories che non appartengono al suo fan club e che temono di mettergli in mano le redini del paese in un momento simile, pensano di anteporgli il ministro dell’interno Theresa May.
Nel frattempo continua la turbolenza finanziaria.
L’agenzia di rating Moody’s ha abbassato da stabile a negativo l’outlook sul rating del paese in quello che ha definito un periodo di prolungata stabilità successivo all’uscita del paese dall’Unione. Anche a Standard & Poor’s hanno ribadito che la «tripla A» del rating della sterlina è a rischio.
Sempre sul fronte della disgregazione statuale, Nicola Sturgeon, la primo ministro scozzese, che venerdì ha messo in chiaro che un secondo referendum sull’indipendenza scozzese è probabile, ha detto che cercherà «discussioni immediate» per proteggere il posto della Scozia, che ha votato al 62% per restare, nell’Ue.
A questo fine, ha anche intenzione di fare lobby presso tutti i diplomatici europei presenti su suolo scozzese invitandoli a incontri «informali».
Intanto Corbyn è alle prese con la fronda interna che alcuni backbenchers moderati – risoluti come al solito a lasciarsi sfuggire un’occasione d’oro per attaccare i Tories in difficoltà – gli hanno mosso approfittando della sua opaca performance a difesa della permanenza.
Contestato dalla platea del Gay Pride londinese cui partecipava, il leader ha risposto «Ho fatto tutto quello che ho potuto».
[Leonardo Claudi 26/03/2016]
Ciononostante, il commissario britannico europeo Lord Jonathan Hill, rappresentante di massimo rilievo presso l’Ue, pur sottolineando il proprio rammarico per la decisione presa dal popolo britannico ha dato le dimissioni dalla commissione Juncker, commentando: «Quel che è fatto è fatto».
Non la pensano così gli autori dei 2 milioni di firme raccolte attorno a una petizione per indire un secondo referendum, che venerdì, in poche ore, ha mandato in crash il sito del governo. La petizione recita testualmente: «Noi sottoscritti ci rivolgiamo al governo di Sua Maestà perché promulghi una regola per cui se il voto per leave o remain è inferiore al 60% e basato su un’affluenza di meno del 75% si dovrebbe indire un secondo referendum». Per essere prese in considerazione dal parlamento, la soglia minima di firme è centomila.
L’uscita di Hill, che sarebbe stato uno choc solo qualche settimana fa, è ormai l’ordinario effetto collaterale di una reazione a catena innescatasi venerdì mattina dopo la notizia della vittoria del leave e che ha causato le dimissioni di un David Cameron dagli occhi umidi.
Contemporaneamente, sul sito Change.org, altre 151mila firme in poco tempo andavano a sottoscrivere la richiesta al sindaco di Londra Sadiq Khan di dichiarare Londra indipendente dal Regno Unito e rientrare nell’Unione Europea. Sono due sviluppi che fino a qualche tempo fa uno avrebbe potuto leggere su un romanzo di fantapolitica e che trasmutano bruscamente Britain da Great a Little.
Che danno l’idea dello sgomento generalizzato soprattutto fra le giovani generazioni metropolitane e globalizzate, la cui non sufficiente affluenza alle urne è probabilmente fra le cause della sconfitta di misura del remain che, lo ricordiamo, ha perso per due punti percentuali, 48 a 52%. In una ripartizione che riflette abbastanza quella geografica del voto, la maggior parte dei firmatari proviene dalle zone metropolitane del paese, e in particolare da Londra.
Nel partito conservatore si apre intanto la questione del post-Cameron. Nella sua conferenza stampa accanto a Michael Gove, Boris Johnson, assediato davanti al suo domicilio londinese da una folla ostile in uno strano trionfo nel posto sbagliato, pareva uno che sa di averla fatta grossa. Ha commentato la vittoria in tono sommesso e serissimo, in una performance lontana anni luce da quelle per cui è noto e amato dall’elettorato conservatore. Forse pensa all’equivoco che lo esporrà al ludibrio dei votanti del leave, cui Nigel Farage ha fatto credere che la vittoria avrebbe del tutto interrotto il flusso migratorio nel paese: una cosa naturalmente impossibile.
I Tories che non appartengono al suo fan club e che temono di mettergli in mano le redini del paese in un momento simile, pensano di anteporgli il ministro dell’interno Theresa May.
Nel frattempo continua la turbolenza finanziaria.
L’agenzia di rating Moody’s ha abbassato da stabile a negativo l’outlook sul rating del paese in quello che ha definito un periodo di prolungata stabilità successivo all’uscita del paese dall’Unione. Anche a Standard & Poor’s hanno ribadito che la «tripla A» del rating della sterlina è a rischio.
Sempre sul fronte della disgregazione statuale, Nicola Sturgeon, la primo ministro scozzese, che venerdì ha messo in chiaro che un secondo referendum sull’indipendenza scozzese è probabile, ha detto che cercherà «discussioni immediate» per proteggere il posto della Scozia, che ha votato al 62% per restare, nell’Ue.
A questo fine, ha anche intenzione di fare lobby presso tutti i diplomatici europei presenti su suolo scozzese invitandoli a incontri «informali».
Intanto Corbyn è alle prese con la fronda interna che alcuni backbenchers moderati – risoluti come al solito a lasciarsi sfuggire un’occasione d’oro per attaccare i Tories in difficoltà – gli hanno mosso approfittando della sua opaca performance a difesa della permanenza.
Contestato dalla platea del Gay Pride londinese cui partecipava, il leader ha risposto «Ho fatto tutto quello che ho potuto».
[Leonardo Claudi 26/03/2016]
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