Si intitola Dio odia le donne (pp. 2014, euro 18) ed è il
nuovo libro di Giuliana Sgrena pubblicato di recente da Il Saggiatore.
Fin dall’introduzione si apprende che non si tratta di un pamphlet, né è
un lavoro che desideri offrire una nuova esegesi delle fonti o una
disquisizione teologica. La disposizione attraverso cui leggere questo
volumetto, agile e al contempo solido, equipaggiato di dati ma godibile
nella scrittura tagliente e svelta, si adegua allora a ciò che la stessa
Sgrena dichiara di aver effettuato: una narrazione di carattere
esperienziale, frutto di una ricerca personale che l’ha portata ad
analizzare l’immaginario e le ricadute sociali che emergono nel
confronto tra le tre religioni monoteiste e il sesso femminile.
La ricognizione è ampia e si innerva nella stessa biografia
dell’autrice. A essere messe a nudo non sono solo le contraddizioni
interne alle singole religioni che, secondo Sgrena, hanno sostenuto il
patriarcato; ciò che appare è la manipolazione costante della laicità e
dei suoi simboli da parte di chi perpetra e piega a proprio uso e
consumo testi, scritture e fonti spesso lette malamente con l’unico
scopo di controllare e mondare la sessualità e i corpi. In questo senso,
il libro colpisce fin dall’immagine del fotografo russo Oleg Dou scelta
per la copertina. Un primo piano di una figura non ben identificabile e
liscia nei lineamenti che allude al nome dell’opera, «nun» ovvero
suora, intercettabile solo dal copricapo.
La figura ambivalente della suora apre e chiude il volume, dapprima
legata all’infanzia di Sgrena che si è misurata con delle scuole
cattoliche e che, in considerazione del padre comunista, veniva
costantemente avvisata delle preghiere per lei. Così alla fine, quando
racconta che una suora incontrata per caso le rammenta che in molte e
molti hanno pregato durante la sua prigionia. Ma lei no, certo grata per
la solidarietà, tuttavia non ha mai pregato neppure in quelle ore di
dolore: «anche quando sentivo la morte vicina, ogni volta che i miei
guardiani giravano la chiave nella toppa della porta e pensavo potesse
essere arrivata la mia fine, quando avevo paura all’idea che mi
potessero sgozzare». Il punto è è complesso, perché a restituire un
approccio «neutrale» e da atea sulle religioni è una donna che ha
contezza del suo sesso. E che osserva i meccanismi e gli attraversamenti
storico-politici di oppressione senza per questo tacere i guadagni
delle forme di autodeterminazione e libertà femminili, con quel
rovesciamento dello sguardo quando negli anni ’70 racconta dei primi
gruppi di self-help dopo la dirompenza del ’68.
Il libro si dipana per temi, ciascuno dei quali è sgranato al dritto e
al rovescio. Ciò che rappresenta oggi la verginità non è più quella
restituitaci da Margaret Mead; risente invece, secondo i vari e distinti
contesti, di ulteriori e ben più terrestri storture nella sua
appropriazione. Lo racconta la giornalista che ha intervistato alcune
giovani musulmane e che hanno accusato il disagio di non poter vivere
con agio la propria sessualità. Esistono in questa configurazione, ad
altre latitudini, vere e proprie «fabbriche della verginità», che
propongono per esempio l’imenoplastica; a Parigi nella clinica di Marc
Abecassis, per 2000 dollari, o dalla società Gigimo, con sede a Shangai,
che confeziona per 15 dollari un imene artificiale con accluse gocce
rosse, simili al sangue.
Al di là di queste annotazioni, il tema della verginità richiama
quello più vasto del controllo proprietario della sessualità femminile; i
dati sconcertanti sono pubblicati nel 2013 dall’università di Cambridge
dalla rivista di criminologia Aggressive Behaviour, secondo uno studio
condotto in Giordania in cui un terzo degli studenti ascoltati si sono
dichiarati d’accordo con il delitto d’onore. Retaggi culturali duri a
morire, come quello legato alla piaga ancora devastante delle
mutilazioni genitali. Sgrena riferisce i dati di ciò che accade ancora
in Somalia, nonostante la strenua battaglia intrapresa da Edna Adan
Ismail che da parecchi anni riesce a sottrarre molte bambine a questo
efferato rito di iniziazione, insieme ad altre attiviste in tutto il
mondo; basti pensare alle testimonianze della scrittrice egiziana Nawal
El Saadawi.
L’appropriazione della sessualità si attaglia, drammaticamente, a
quella dell’aborto, con la presenza degli obiettori di coscienza che
hanno contribuito allo svuotamento qui in Italia della 194. Se allora è
in nome della fede che si sdoganano pratiche simili, sarà il caso di
soffermarsi ancora e di discutere nel profondo altri nodi, ancora
irrisolti. Perché all’odio, tutto umano, si possa rispondere con l’agire
politico.
[Alessandra Pigliaru 21/05/2016]
Questo blog accoglie la nuova avventura di quelli di Sguardi d’Altrove, e il Reverendo Dogdson, con i suoi dubbi sulla realtà, si aggiunge al nostro olimpo di numi tutelari. Non dimentichiamo gli autori che più spesso ci hanno accompagnati nel viaggio di Sguardi d’Altrove, anzi, da loro ripartiamo. Quindi, un pensiero affettuoso e ammirato, in particolare, ad Alan Bennet a alla sua Sovrana Lettrice, mantenendo ben fermo il principio che ragguagliare non è leggere.
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