mercoledì 23 dicembre 2015

L' albero di Natale, Andersen H. Christian; Boutavant Marc


C’era una volta nel bosco un piccolo abete, che avrebbe dovuto essere molto contento della propria sorte: era bello, e in ottima posizione; aveva sole e aria quanta mai ne potesse desiderare, e amici più grandi di lui, pini ed abeti, che gli stavan d’attorno a tenergli compagnia. Ma egli non aveva che una smania sola: crescere”.

Fra i classici, intramontabili, spicca “L’albero di Natale”, anche detto “L’abete”, di Hans Christian Andersen, da preferire quella pubblicata da Rizzoli nel 2009, con traduzione di E. Dragoni e illustrazioni di Marc Boutavant. Si tratta di una delle fiabe più belle e commoventi dello scrittore danese Hans Christian Andersen (1805- 1875), celebre per opere quali “La principessa sul pisello” (1835), Mignolina (1835) “La sirenetta” (1837), “Il soldatino di stagno”, “Il brutto anatroccolo” e “La piccola fiammiferaia” (1845).
Pubblicata per la prima volta nel 1844, la fiaba narra, nello specifico, di un abete ansioso di crescere che non riesce mai ad apprezzare le piccole cose che gli capitano. Se solo fosse più grande, come gli altri alberi della foresta, gli uccelli costruirebbero nidi sui suoi rami, e la sua vita potrebbe considerarsi davvero “incominciata”. Il fatto di essere considerato “il piccolo della foresta” gli crea imbarazzo. Egli sogna di diventare legno per costruire grandi navi e solcare mari lontani; così come di arredare case lussuose, senza coscienza alcuna che questo significhi perdere la vita.

"Oh, se fossi alto come quell’albero laggiù!" - sospirava il piccolo abete: "Allora sì, che stenderei i miei bravi rami in lungo e in largo, e dalla mia vetta guarderei per tutto il mondo. Allora gli uccelli potrebbero fare il nido tra le mie fronde, e, quando tira vento, potrei accennare a dondolarmi superbamente anch’io come i grandi."
Non trovava piacere nel calore del sole, negli uccellini, nelle nuvole di porpora che passavano sul suo capo mattina e sera.
Tal volta, nell’inverno, quando la neve era sparsa per tutto bianca e scintillante, una lepre veniva correndo a tutto spiano, e saltava pari pari sopra l’abete. Oh, gli faceva una rabbia... Ma gl’inverni passarono, uno dopo l’altro; e, quando giunse il terzo, il piccolo abete era divenuto così alto, che la lepre fu obbligata in vece a girargli attorno.
"Oh, crescere, crescere, divenir grandi, divenir vecchi! Ecco la sola cosa bella di questo mondo! - pensava il piccolo abete."

Fino a quando un giorno, il giovane albero viene tagliato e condotto in una casa dove, la vigilia di Natale viene addobbato con candele, mele colorate, giocattoli e caramelle.

Ma l’abete non si rallegrava punto: non faceva che crescere e crescere, inverno e estate, sempre più verde, d’un bel verde cupo. La gente diceva: "Che bell’albero!" - e, a Natale, fu tagliato prima di tutti gli altri. L’ascia andò profonda, sino al midollo, e l’albero cadde a terra con un sospiro; provava un dolore, una sensazione di sfinimento, non poteva davvero pensare a felicità: è così triste lasciare il posto dove si è nati e cresciuti... Sapeva che non avrebbe rivisti mai più i vecchi compagni, i piccoli cespugli ed i fiori ch’erano lì attorno - nemmeno gli uccelli, forse... Ah, il distacco fu tutt’altro che lieto!
L’albero non tornò in sè che quando fu scaricato in un cortile insieme con molti altri, e sentì dire:
"Questo sì, ch’è magnifico: non voglio vederne altri. Prendiamo questo."
Vennero due domestici in livrea gallonata, e portarono l’albero in una grande splendida sala. Le pareti erano tutte coperte di quadri, e presso una enorme stufa stavano due vasi della Cina con due leoni dorati sul coperchio: c’erano due poltrone a dondolo, e divani di broccato, e grandi tavole cariche di bei libri con le figure; e balocchi che valevano cento volte cento lire - almeno, così dicevano i bambini. E l’abete fu posto in un grande mastello pieno di sabbia; ma nessuno avrebbe detto che fosse un mastello, perché era stato ricoperto di stoffa verde, e collocato nel mezzo d’un bel tappeto a colori. Ah, come tremava, ora, il nostro abete! Che sarebbe accaduto? I domestici, ed anche le signorine di casa, incominciarono ad ornarlo. Ad un ramo appesero tante piccole reti intagliate nella carta colorata, ed ogni rete era piena di dolci; noci e mele dorate pendevano qua e là, che parevano nate sull’albero; e più di cento candeline, bianche, rosse e verdi, erano attaccate ai rami. Bambole, che sembravan vive - l’abete non ne aveva mai vedute, di simili, prima d’allora, - si dondolavano tra mezzo al fogliame; e su in alto, sulla vetta dell’albero, era inchiodata una stella di similoro. Insomma, una bellezza, come non se ne vedono.

I bambini che vi abitano saccheggiano i doni dai suoi rami, e gli si siedono intorno ad ascoltare le favole degli adulti. 
Il giorno seguente, l’albero si aspetta di rivivere quella stessa magica atmosfera, mentre invece viene spogliato e relegato in una soffitta buia. 

 "La mattina entrarono i domestici e la cameriera.
"Ecco che ora ricomincia il mio splendore!" - pensò l’albero. Ma, in vece, fu portato fuori del salotto, e su per la scala, sin nel solaio, in un angolo buio, dove nemmeno arrivava un raggio di sole.
"Che significa questa faccenda?" - pensò l’albero: "Che vogliono che faccia qui? Ed ora, che cosa accadrà?"
E si appoggiò al muro, e stette lì a pensare, a pensare. E tempo n’ebbe sin troppo, perch* passarono i giorni e le notti, e mai che venisse alcuno; e quando finalmente uno capitò, non fu se non per deporre in un angolo certe grandi casse. Così l’albero rimaneva ora del tutto nascosto: probabilmente, lo avevano dimenticato.
"Fuori è inverno, ora" - pensava l’albero: "la terra è dura e coperta di neve, e non potrebbero piantarmi; sarà per questo che mi tengono qui al riparo sin che non torni la primavera. Quanti riguardi! Che buona gente! Ah, se non fosse questo buio e questa terribile solitudine!... Mai che si veda nemmeno un leprottino! Era bello, però, il bosco, quando c’era la neve alta, e la lepre passava correndo; sì, anche quando mi passava sopra d’un salto... Allora, mi faceva arrabbiare... Che malinconia in questa solitudine!"

A lui si uniscono dei topolini, ai quali l’abete racconta la favola che ha udito quando era in casa, al centro dell’attenzione di tutti. Terminato il racconto, anche i topi lo lasciano solo. Con l’arrivo della bella stagione, l’albero che ha perso i suoi colori, viene portato in cortile. Un ragazzo prende la stella rimasta sulla sua cima, ultimo baluardo della vita che ha vissuto, mentre l’abete viene tagliato a pezzi e bruciato. La logica fine di un albero, di cui egli, purtroppo, non ha mai avuto consapevolezza.
A mano a mano che la storia si sviluppa, cresce la delusione dell’albero per la situazione contingente, mentre fa breccia in lui la nostalgia per gli eventi passati. Tale descrizione coincide col tipico atteggiamento dell’essere umano che, al di là del tempo e del luogo, si rende sempre conto di quello che possiede, soltanto dopo averlo perso.

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