venerdì 6 marzo 2015

Rassegna stampa

Se dite continuerei a parlare un po’ di politica.Ho da poco visto tutte le puntate di “Breaking bad” la serie più premiata della storia della Tv americana. Più o meno 60 ore.  Notevole.E’ la storia di un tizio che fa il professore di chimica in un liceo di Albuqueque in Nuovo Messico, ha una cinquantina d’anni, una moglie bella e incinta, un figlio leggermente disabile, non ha risparmi e una assicurazione sanitaria inadeguata. Gli trovano un cancro ai polmoni. Decide, per dare un futuro alla famiglia, di creare (  è un chimico geniale)  produrre e spacciare la miglior meta anfetamina mai sintetizzata   ( l’effetto è un incrocio tra anfetamina e ecstasy, se ho ben capito). Il tutto con l’aiuto di un suo ex studente, piccolo spacciatore in proprio. Naturalmente è anche la storia della sua scalata ai vertici del crimine. Come dicevo è bellissimo. All'inizio, soprattutto,  perché cambia le coordinate e fa vedere non tanto come nasce una mente criminale ma come si manifestano i “lati oscuri” di tutti. E via via diventa sempre più complesso.Chiaramente non è il luogo e lo spazio per parlarvene diffusamente. Solo di  una  cosa voglio dire: sull'ambientazione. La storia si muove in uno spazio " vuoto". La società in America è scomparsa. Ci sono le gang, i poliziotti, le multinazionali, le famiglie, i drogati ( i consumatori). Non c’è la politica, nemmeno il sindaco che si incazza. Non c’è più la città. Centri commerciali, fast food , autolavaggi, sfascia carrozze e intorno il deserto ( se non fosse per il deserto sembrerebbe di essere a Rovigo). E, letteralmente, montagne di dollari e, of course, di morti.  “Breaking bad”  un po’ alla volta si rivela una geniale rimodulazione - “annichilita” ai giorni nostri - di un  geniale film di Martin Scorsese che si chiamava “Casinò” e dell’opera omnia di un signore che ha fatto solo film geniali e si chiamava Sam Peckinpah. Più qualche altra cosetta profondamente radicata negli archetipi della   cultura americana. Primo fra tutti il rapporto di amicizia/scontro tra uomo maturo e giovane. Per cui ….
Territorio del Nuovo Messico, 1901. Un vecchio su un calesse attraversa dei pascoli. E’ Pat Garrett ex sceriffo e ancor prima ex fuorilegge, che venti anni prima aveva deciso di passare dalla parte della legge e liquidare per conto dei grandi allevatori e dei capitalisti la sua vecchia banda e in particolare il suo vecchio amico Billy the Kid gli unici “oppositori” all'affermazione definitiva della legge (del capitale) e all'omologazione sociale. Un killer, pagato dai suoi padroni, spara anche a lui, evidentemente non del tutto in linea con il nuovo corso e soprattutto diventato “inutile”. E’ l’inizio geniale di uno dei più bei western degli anni ’70 “Pat Garrett & Billy the kid” di Sam Peckinpah del 1973 che - lunga ballata di morte -  gareggia per la palma di ultimo vero western. Forse superato solo da “Dead man” di Jim Jarmush in cui il discorso è veramente ridotto solo al “viaggio verso la morte” ( che è poi uno dei temi anche di “Breaking bad”). Con una differenza tra i due, però:  “Pat Garrett” parla molto anche di politica. Girato negli anni ‘70 parla della fine del movement ( in fondo la banda del Kid assomiglia molto anche a una comune) e della normalizzazione che sarebbe arrivata con gli anni 80 ( e non fa sconti a nessuno. Billy non è Robin Hood. E’, in fondo, un narciso innamorato del suo mito). E spiega bene un certo meccanismo. Perché sì,  Pat Garrett è ….. Matteo Renzi. E prima Tony Blair. Ovvero la sinistra che fa un paio di conti e decide di “invecchiare” serenamente. Salvo farsi ammazzare, a missione compiuta. Non lo dico io, sia chiaro. Lo dice il vecchio Sam che una decina di  anni dopo sarebbe morto di alcool, disillusioni e cocaina ( infartone). Però la metafora non è male. 
 “Pat Garrett & Billy the kid” fu alla sua uscita un film  memorabile in ogni caso e, allora, innanzitutto perché aveva una colonna sonora bellissima composta da Bob Dylan che nel film recita pure interpretando un personaggio di nome Alias. Una canzone in particolare:  “Knockin on heaven's door” che fu il “lento” delle estati 1973,74 e 75 ( allora le canzoni si bruciavano più lentamente) finché qualcuno non si accorse che il pezzo, nel film, commentava ( anche il testo), con un lirismo struggente, la morte di un vecchio sceriffo  ( la sequenza è l’unica esplicitamente citata in “Breaking bad”). La cosa divenne a quel punto imbarazzante. Anche se, col senno di poi, quantomeno il titolo, indicava in maniera piuttosto poetica le movenze e le finalità per  cui  veniva praticato il ballo c.d. “a mattonella”. 
Ah Bob Dylan. Il vecchio Bob ha inciso un nuovo bellissimo cd che si intitola “Shadows In The Night” nel quale omaggia esplicitamente un suo idolo musicale, tal Frank Sinatra reinterpretando  brani del grande song book americano  tutti già incisi da Frank. Ma come? Bob Dylan il cantante di protesta, il rocker, l’idolo di due o tre generazioni, il poeta, l’eroe della controcultura  che canta le canzoni di Broadway? Che omaggia il macho seduttore Sinatra? La cosa vi sconvolge? (la Sandra mi ha già anticipato che non gliene frega niente. Mai ascoltato Sinatra). In realtà  non è sorprendente (a parte il fatto che gli arrangiamenti e la strumentazione  sono rock minimalisti e al posto dei violini c’è la steel guitar). Perché Frank e Bob una cosa la condividono da sempre:  sono i due più grandi cantori degli amori perduti. E degli insondabili misteri delle anime femminili. E sono degli antiretorici (e nel Cd c’è il brano manifesto “Autumn Leaves”, Le foglie morte. Versi di Prevert). E, poi, fatto forse poco noto, old Frank è ben prima, che so dei Beatles o dei Pink Floyd, l’inventore del concept album: il disco che contiene un gruppo di canzoni legate da un tema, da una storia comune. Uno dei più famosi è del 1955 e si chiama “In the wee small hours” ed è tutto dedicato al fallimento amoroso (inciso subito dopo il divorzio da Ava Gardner, con tanto di tentato suicidio da parte di lei). Contiene, tra le altre, una delle più strepitose (e dolenti) versioni di “What is thing called love?” di Cole Porter.  E Dylan? Uno dei suoi capolavori resta certamente “Blood on the tracks”, Sangue sui solchi,  del 1975, lunga interrogazione sul perché della fine degli amori: riflessione  sul divorzio dalla prima moglie.  Ed infine.... La mia generazione ha conosciuto Bob Dylan proprio con quell’album. Quindi? Che si spieghi con questo la nostra maggior delicatezza, la nostra sensibilità ferita, una certa accidia che ci distingue dai fratelli maggiori che fecero il mitico ’68 cantando Blowin in the wind ? 
In realtà molto si spiega con una continuità di fondo della cultura americana. Come diceva il mio “maestro” Franco la Polla con “la capacità tutta americana di raccontare, comunque, delle storie” il che poi dà ragione della loro irresistibile  tendenza a “colonizzarci l’inconscio” ovvero a far sì che i film della New Hollywood siano, comunque, più popolari e ricordati di quelli delle tante nouvelle vague .Su questo tema mi permetto di rimandarvi anche a un mio scrittino contenuto nel cataloghino della rassegnina di cinema in corso al don Bosco. Il pezzo si chiama “Vecchiaia”. 
Bene mi resta da dirvi che il romanzo italiano sulle carceri che tanto è piaciuto a Fofi a di cui vi ho parlato malamente l’ultima volta si chiama “Cattivi” è di Maurizio Torchio ed è edito da Einaudi. 
Ho scritto queste righe di notte ( c’è sempre meno tempo ) ascoltando in sottofondo un album live di Chet Baker del 1987 che si chiama “One night in Tokyo”. Quando sento gli applausi penso sempre che tra il pubblico ci sia anche Haruki Murakami.
Ciao
Andrea
P.S. Ho riletto quanto scritto e ve lo mando così anche se forse ho esagerato. Quel culone di Renzi come James Coburn? Mammamia!
Coburn l’ho anche visto e sentito parlare anni fa ad una rassegna padovana  dedicata a Sam Peckinpah. Quella sera davano il film  “Sierra Charriba” e c’erano un sacco di attori che avevano lavorato con Sam che hanno raccontato un sacco di aneddoti e di ricordi. Non capivo un cazzo ma ero molto felice. Vicino a me per tutta la proiezione si è seduta Ali McGraw, proprio lei, quella di Love story ma anche di Getaway e di Convoy. Bellissima. E guarda i film a piedi nudi. Che brividi, ragazze.

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